Schema d’incontro per gruppi di ragazzi e giovani dai 14 anni in su sul tema della presenza e della testimonianza cristiana nei paesi a maggioranza musulmana. Con l’ausilio di dati estratti da alcuni rapporti internazionali e di alcune storie di vita di persone che hanno creduto e credono nel dialogo tra le religioni.
Obiettivo dell’incontro: conoscere il tema della presenza cristiana nei paesi musulmani; stimolare la curiosità e la capacità di ascolto rispetto a storie e biografie “fuori dall’ordinario”, imparare a gestire un dialogo rispettoso su temi delicati.
Destinatari: dai 14 anni in su.
Durata dell’incontro: 1h.30’.
Materiali: cartelloni con la sagoma di una figura umana, matite, gomme, pennarelli, Fogli bianchi e colorati, riviste missionarie (che si possano ritagliare), forbici, colla, fotocopie delle testimonianze.
PREMESSA: quasi sempre siamo portati a pensare, scrivere, discutere sulla presenza dell’Islam nel nostro contesto religioso e culturale italiano mettendo in luce soprattutto le problematiche (pensiamo ad esempio alla discussione sulle moschee) oppure sui cristiani che subiscono discriminazioni e persecuzioni nei Paesi musulmani. Raramente invece ci soffermiamo ad analizzare con calma i dati che delineano una situazione sempre in evoluzione e movimento, ad approfondire i “ritratti” di quei cristiani che, vivendo quotidianamente fianco a fianco con i musulmani, non traggono conclusioni o giudizi finali, a riflettere sul senso della presenza cristiana nei paesi musulmani e sulla sua vitalità.
Il tema di questo incontro prende spunto dal libro di Chiara Zappa, Noi, cristiani d’Arabia, EMI, Bologna 2011, e dal dossier di Missioni Consolata di Gennaio-Febbraio 2012.
INTRODUZIONE (circa 15’): l’animatore, dopo aver spiegato sinteticamente l’obiettivo e il contenuto dell’incontro, illustra la presenza dei cristiani nel mondo e in particolare nei paesi musulmani, con il supporto di dati e mappe tematiche (può essere utile preparare un video o una presentazione di power point).
Dal World factbook 2011
Nel luglio 2011 la popolazione mondiale era stimata in 6,93 miliardi di persone. Secondo una stima del 2009 la popolazione mondiale si suddivide nelle diverse religioni come segue: Cristianesimo 33,35% (cattolici 16,83%, protestanti 6,08%, ortodossi 4,03%, anglicani 1,26%), Islam 22,43%, Induismo 13,78%, Buddhismo 7,13%, Sikh 0,36%, Ebraismo 0,21%, Baha’i 0,11%, altre religioni 11,17%, non religiosi 9,42%, atei 2,04%.
Dall’Annuario statistico della Chiesa
Al 31 dicembre 2009 il numero dei cattolici era pari a 1,18 miliardi di persone con un aumento complessivo di 14,95 milioni di unità rispetto all’anno precedente. L’aumento ha interessato tutti i continenti: Africa (+6,53 milioni); America (+5,86); Asia (+1,81); Europa (+597mila); Oceania (+147mila). La percentuale dei cattolici è cresciuta globalmente dello 0,02%. Riguardo ai continenti, si sono registrati aumenti in Africa (+0,3); America (+0,04) e Asia (+0,01), mentre in diminuzione sono stati Europa (- 0,02) e Oceania (- 0,3).
Dal rapporto 2011 Aiuto alla Chiesa che Soffre
La presenza cristiana in alcuni paesi a maggioranza musulmana.
BANGLADESH – Popolazione: 165.5 milioni.
Religioni: Islam 88.5%; Hindu 9.5%; altre 1.5%; Cristiani 0.5%.
Popolazione cristiana: 828000.
EGITTO – Popolazione: 84.5 milioni.
Religioni: Islam 87.5%; Cristiani 12%; altre 0.5%.
Popolazione cristiana: 10 milioni.
INDONESIA – Popolazione: 238 milioni.
Religioni: Islam 79%; Cristiani 12%; religioni locali 2.5%; altre 6.5%.
Popolazione cristiana: 28.5 milioni.
IRAN – Popolazione: 72 milioni.
Religioni: Islam 98.5%; altre 1.5%.
Popolazione cristiana: 15000.
PAKISTAN – Popolazione: 175 milioni.
Religioni: Islam 95%; Cristiani 1.5%; Hindu 1.5; altre 2%.
Popolazione cristiana: 2.5 milioni.
ARABIA SAUDITA – Popolazione: 25 milioni.
Religioni: Islam 95%; Cristiani 4%; altre 1%.
Popolazione cristiana: 1 milione.
SUDAN – Popolazione: 38 milioni.
Religioni: Islam 70%; Cristiani 15%; religioni Locali 12%; altre 3%.
Popolazione cristiana: 5.5 milioni.
TURCHIA – Popolazione: 75 milioni.
Religioni: Islam 97%; Cristiani 0.3%; altre 2.7%.
Popolazione cristiana: 150000.
COME TESTIMONIARE LA FEDE CRISTIANA? (15’ minuti):
attraverso la tecnica del brainstorming l’animatore raccoglie e scrive su un cartellone le risposte alle domande:
1- È possibile testimoniare la propria fede agli altri in una situazione di minoranza o è meglio viverla in modo personale e segreto?
2- Quali atteggiamenti, secondo te, sono importanti per testimoniare la propria fede in un paese musulmano?
L’animatore legge le parole di mons. Bernardo G. Gremoli (Cappuccino, vescovo titolare di Masuccaba, vicario apostolico di Arabia dal 1975 al 2005), tratte dall’introduzione del libro Noi, cristiani d’Arabia. Dopodiché invita i ragazzi a confrontare le loro risposte con le parole “vissute” di mons. Gremoli.
«Arrivai negli Emirati all’inizio del boom petrolifero. Decine di migliaia di tecnici e operai affluivano dalle più disparate parti del mondo per lavorare agli oleodotti, alle autostrade e alla costruzione di nuove città. Tra loro un buon numero erano cattolici, ma non esistevano luoghi di culto adeguati per accoglierli, avevamo pochi sacerdoti per assisterli spiritualmente e dovevamo far fronte a problemi gravi e urgenti.
Fin dall’inizio ho cercato di essere presente con discrezione, rispetto e attenzione, valutando bene le varie situazioni che mi si presentavano. Solo quando ho imparato a conoscere le diverse culture ho iniziato ad agire, nei confronti dei rappresentanti politici e religiosi del paese, sempre con molta riservatezza. È stato un lavoro difficile che ha richiesto da parte mia pazienza e umiltà, che alla fine hanno dato i loro frutti.
Il mio atteggiamento verso le autorità è sempre stato improntato al rispetto sincero delle leggi, delle tradizioni, dei costumi e dei simboli locali. Questo mi ha permesso di intrattenere un buon dialogo, a seguito del quale ho potuto ottenere ottimi risultati, come i permessi per la costruzione di chiese e di scuole… Non è stato un trionfo … ma un lungo periodo di intenso lavoro che ha richiesto impegno. Molta pazienza e rispetto per superare non poche difficoltà, insieme a lunghe attese…
I buoni risultati ottenuti in questi anni non sono dovuti solo alla disponibilità delle autorità, ma anche alle nostre numerose comunità cattoliche che hanno fatto la loro parte con grande entusiasmo e generosità … queste comunità vivono … con fervore la loro fede nonostante le molte difficoltà che, come immigrate, devono affrontare…
In questi anni trascorsi nel Golfo Arabico ho cercato sinceramente di far capire, in qualsiasi occasione, che la presenza cristiana in quelle terre era improntata al rispetto, alla fraternità e all’amicizia».
LAVORO DI GRUPPO (45’ circa):
i presenti vengono suddivisi in 4 gruppi (o multipli, se sono più di 20-25 persone). Si consegna ad ogni gruppo il seguente materiale:
– un cartellone con il disegno della sagoma di una figura umana;
– matita, gomma, pennarelli;
– fogli bianchi e colorati, riviste missionarie (che si possano ritagliare), forbici e colla;
– fotocopia della testimonianza.
Ogni gruppo avrà circa 20 minuti di tempo per leggere la testimonianza e rappresentare (con creatività, attraverso il materiale ricevuto) gli elementi più significativi della fede cristiana del personaggio, di come la vive e di come la testimonia agli altri, mettendo in evidenza sia gli aspetti positivi che quelli di difficoltà. In seguito i gruppi presentano, in plenaria, la propria figura di cristiano che vive e testimonia la propria fede in terra d’Islam.
Le quattro testimonianze sono di Annalena Tonelli (Missionaria Laica martire in Somalia); Sr. Celia (Missionaria della Consolata in Djibouti); Vescovo Paul Hinder (Vicario apostolico d’Arabia); Renato Casiraghi (architetto a Doha, Qatar). Esse si trovano qui sotto nelle due versioni: sintetica ed estesa.
CONCLUSIONE (10’): i presenti condividono liberamente la parola che più di tutte li ha sensibilizzati sul tema e che più provoca il modo di vivere e testimoniare la propria fede cristiana.
Biografie di cristiani martiri in terre d’Islam:
– Miela Fagiolo D’Attilia e Roberto Zanini, «Io sono nessuno». Vita e morte di Annalena Tonelli, Edizioni San Paolo, Milano 2005;
– Don Andrea Santoro, Lettere dalla Turchia, Città Nuova, Roma 2006;
– Stefania Raspo, Tutto in tre parole. Suor Leonella Sgorbati, missionaria della Consolata, Edizioni verso l’arte, Cerrina (Al) 2011.
SCHEDA su ANNALENA TONELLI
http://www.internetica.it/recensione-Tonelli.htm#nref1
Gerolamo Fazzini, Biografia della Tonelli, vittima dell’estremismo musulmano, su "Avvenire" 20 settembre 2004.
Il 5 ottobre del 2003 veniva uccisa a Borama. Ora un volume raccoglie le lettere e gli scritti inediti. Trent’anni trascorsi tra i somali malati e handicappati, guadagnandosi il rispetto dei musulmani. Credeva nel dialogo fra le religioni, ma già nel ’93 mise in guardia dal fondamentalismo. Annalena: io, da sola in mezzo all’islam.
«Chi uccide un giusto perché contrario alle sue opere feconda il bene che non può sopportare». Era il 1995 e Annalena Tonelli, missionaria laica forlivese, con queste parole di don Mazzolari si rivolgeva ai genitori di Graziella Fumagalli, cercando di consolarli per la perdita della sua amica dottoressa, anch’ella volontaria, trucidata in Somalia pochi giorni prima. Anche Annalena cadrà in Somalia, il 5 ottobre di un anno fa [2003 ndr.], vittima di estremisti musulmani, «contrari alle sue opere», invidiosi della simpatia che lei – cristiana – riscuoteva anche tra i seguaci di Allah.
Tanti, in Somalia, non hanno dimenticato gli occhi azzurri e profondi di quella donna, tanto fragile quanto determinata. Eppure l’interessata, dopo aver speso trent’anni di vita per i somali, curando ammalati di tubercolosi, assistendo bambini e handicappati in zone remote dove nessuno si fidava ad andare, di sé diceva con disarmante semplicità: «Io sono nobody, nessuno»…
Annalena sapeva di rischiare, stando – da sola, donna e bianca, per di più non sposata – in un contesto integralmente musulmano, nel quale «non c’è nessun cristiano con cui io possa condividere», dove «due volte l’anno, intorno a Natale e intorno a Pasqua, il vescovo di Djibuti viene a dire la Messa per me e con me».
In una lettera del Natale 1993 (prima che l’opinione pubblica d’Occidente scoprisse i pericoli dell’islam radicale) Annalena scrive: «Recentemente qui a Merka si è aggiunto anche il problema dei fondamentalisti islamici che (…) preparano video falsati grazie ai quali attingevano e attingono ai fondi ingenti forniti dalla generosità dei popoli arabi. Ora hanno cominciato anche in collegio dove attirano orfani e molto più non orfani, offrendo loro tetto e materasso morbido e cibo abbondante e stanno potenziando la scuola che è in gran parte solo scuola islamica, dove le bambine stanno separate dai maschi e sono coperte dalla testa ai piedi con un piccolo spazio per gli occhi (…), un numero imprecisato di vestiti sotto il mantello per non far vedere le forme». Anche se sa che «il fondamentalismo è sicuramente una piaga», Annalena non si arrende. «Noi continuiamo la nostra strada di testimonianza silenziosa e naturale, testimoni ogni giorno di un Dio d’amore (…) che si è fatto incontrare da noi».
Credeva nel dialogo, Annalena. Senza nascondersi difficoltà e rischi. Ma la sua era una scommessa sui tempi lunghi, su una presenza fedele e discreta, nel segno del «come loro». «Il dialogo con le altre religioni è questo – scrive nel suo testamento spirituale -. È condivisione. Non c’è bisogno quasi di parole».
Credeva nel dialogo, Annalena, ma senza indietreggiare di un millimetro, senza dimenticare l’assoluta originalità del Vangelo. «Ogni giorno al Tb Center noi ci adoperiamo per la pace, per la comprensione reciproca, per imparare insieme a perdonare (…) Oh, il perdono, come è difficile il perdono! I miei musulmani fanno anche tanta fatica ad apprezzarlo, a volerlo per la loro vita».
La sua tenace dimostrazione di amore gratuito – capace di perdonare anche chi aveva tentato di ammazzarla – ha fatto breccia in tante delle innumerevoli persone che Annalena ha accostato durante la sua avventura africana. Solo alla luce di questo si capisce come mai donne musulmane avessero accettato che una straniera (per di più cristiana!) insegnasse loro – ben prima che la lotta alle mutilazioni genitali diventasse una bandiera delle femministe occidentali – come liberarsi da una pratica tanto antica quanto disumana.
Il paradosso è che a capire in profondità il segreto di quella donna umile è stato proprio un vecchio capo musulmano. «Noi musulmani abbiamo la fede – confidò una volta alla missionaria italiana – voi l’amore».
TRATTO DALL’INTERVISTA FATTA DA ERNESTO OLIVERO AD ANNALENA
Ernesto chiede ad Annalena: “Mi fai vedere la cappella?” “La cappella?” gli fa lei meravigliata: “Qui non ho neanche una Bibbia, perché me l’hanno rubata”. E gli spiega che laggiù a Borama, nell’estremo nord-ovest della Somalia, al confine con l’Etiopia e Djibouti, non c’è nessun cristiano, oltre a lei: “Due volte all’anno, intorno a Natale e intorno a Pasqua, il vescovo di Djibouti viene a dire la messa con me e per me”.
Dopo quelle messe, lei conservava l’Eucarestia in casa sua, autorizzata dal vescovo, fino alla nuova visita. In quella solitudine totale, ha vissuto gli ultimi otto anni, a contatto con soli musulmani. Ma la sua vita non era stata tutta solitaria. Si direbbe che la Provvidenza l’abbia condotta, per tappe, a un distacco radicale, da una situazione di partenza che era stata quasi comunitaria.
Così era per Annalena. Era una delle rare presenze cristiane in quel Paese interamente islamizzato; ma la sua presenza non era mai una provocazione; era lì per la gente che aveva bisogno, era lì per un’esigenza d’amore.
Si donava interamente ai poveri, senza paura e senza sosta, eppure sempre guardandosi le spalle, sempre attenta ai passi da fare, alle parole da dire, sempre sul filo del rasoio. Facevano di tutto per ostacolarla, scoraggiarla. Ricordo di averla trovata con un occhio pesto: era stata presa a pugni dal commerciante che le vendeva le derrate alimentari, per aver protestato dello spropositato aumento dei prezzi.
Sapevano che Annalena per i suoi malati non si tirava indietro e le aumentavano i prezzi continuamente.
I suoi racconti erano impressionanti. Davanti alla porta di quella cittadella fortificata che era l’ospedale di Merka, ogni mattino le facevano trovare i cadaveri di uomini uccisi nelle scorribande notturne perché li seppellisse…
Nel libro è riportato questo suo pensiero: “Non è il luogo che conta ma il nostro continuo modificarci per diventare più buoni, più giusti e non violenti… in tutti i sensi più belli nel pensiero, nella parola, nell’azione”.
Non si sognava mai di parlare del suo Dio, eppure l’accusavano continuamente di fare proselitismo, non con le parole, ma con l’amore che aveva per i più deboli. «E’ così che parli del tuo Dio» le dicevano – ed era la verità.
Di fronte alle minacce, Annalena rimaneva ferma, irremovibile, come il Cristo di fronte ai suoi avversari: «Che male ti ho fatto perché tu mi colpisca?». Al termine di quella giornata le avevo chiesto: “Come si resiste in una situazione così tesa?». La risposta era stata un movimento quasi impercettibile della labbra: «In questa solitudine si può resistere solo se ci si sente fortemente abitati».
Non portava segni religiosi, nella sua casa, mi disse, prima aveva una cappella ma gliel’avevano saccheggiata… Le era rimasta la Bibbia, ma gliel’avevano rubata… Ma il segreto della sua forza era essere abitata da Dio, essere casa di Dio. Il segreto della sua forza era la preghiera, la contemplazione della Presenza di Dio.
http://www.luigiaccattoli.it/blog/?page_id=875
SCHEDA su suor CELIA CRISTINA BAEZ MC
Djibouti: Testimonianza di Sr. Celia missionaria della Consolata. Lunedì 10 Marzo 2008
Sr. Celia Cristina Baez è una Missionaria della Consolata argentina che, dal 2004 insieme ad altre tre Consorelle e a due Missionari della Consolata, vive la sua esperienza missionaria in Djibouti. Così condivide la sua esperienza missionaria in questa terra.
Sono trascorsi quasi tre anni da quando sono arrivata a Djibouti come missionaria, insieme ad altre consorelle, una terra “promessa”, tanto sognata ed attesa da tanto tempo…
Ricordo, all’arrivo, il primo impatto con il calore soffocante e il vento caldo e umido che mi colpiva la faccia… non era simile ad una carezza! Mi sono subito chiesta dove ero capitata, come ce l’avrei fatta con quel caldo…
Djibouti è un paese senza alcuna attrattiva, senza il colore verde che caratterizza generalmente l’Africa, qui c’è solo siccità, tanta povertà, tanto deserto, tanto grigio.
Eppure è in mezzo a questa realtà e in questo clima torrido e caldo che ho imparato a scoprire la ricchezza della gente giboutina espressa nei loro volti, nel loro calore umano, nella loro amicizia e nella loro storia.
Storia ascoltata nell’attesa al mercato, nei mezzi di trasporto e nel Centro dove lavoro.
Storia che non ha bisogno di tante parole sofisticate per essere raccontata, ma solo di tempo donato per l’ascolto: ogni incontro una celebrazione.
Originaria dell’Argentina ho imparato nella mia terra che ciò che veramente conta è sapersi fermare per ascoltare e per scoprire l’altro, per condividere la vita, soprattutto per scoprire negli occhi delle donne, delle ragazze e dei bambini la gioia e il dolore che la vita stessa comporta.
Djibouti, da quasi due anni, lavoro al Centro “Madre e Bambino”, ed è qui che ho incontrato Dio l’inseparabile, il compagno di cammino. “In sha Allah” (se Dio vuole) è la frase che qui risuona sovente. Il popolo è credente, crede fortemente nella grandezza e onnipotenza di Dio. Vivendo accanto a loro ho scoperto i valori che maggiormente lo caratterizza: la semplicità, il perdono, l’ospitalità, la condivisione e una grande fiducia in Dio. La chiamata alla preghiera del Muezin, diffusa cinque volte al giorno, é per me un invito e una sfida a crescere nella mia relazione personale con Dio.
È qui che sto imparando a donarmi senza aspettare nulla, neppure un “grazie” perché questa parola nella lingua somala non esiste anche se è fra le lingue più parlate, ma esiste il gesto, lo sguardo, il bacio e l’abbraccio e questo forse comunica di più.
Il Centro “Madre e Bambino” é un centro governativo, fondato nel 1978 dopo l’indipendenza, che accoglie ragazze sole e offre loro un’assistenza sociale ed educativa per arginare la miseria, la delinquenza giovanile e la prostituzione.
Attualmente nel Centro sono presenti 200 ragazze dai 2 a 20 anni; alcune sono orfane, altre non hanno mezzi per vivere, la maggioranza sono state abbandonate dalle proprie famiglie. Qui vengono loro offerte diverse opportunità educative: accesso alla scuola, corsi di taglio, cucito, arte culinaria nonché alcune attività artistiche e lavori manuali. Questo Centro, nel quale offro il mio contributo di lavoro con tanto interesse ed entusiasmo, suscita in me una impressione positiva: è un Paese esclusivamente musulmano dove alla giovane è data la possibilità di educazione e formazione più che in altri ambienti islamici.
Al mio primo arrivo il personale e le ragazze mi guardavano con tanta curiosità; si meravigliavano di vedere una suora parlare con tutte loro e giocare con le più piccole; pian piano con discrezione e rispetto ho guadagnato la loro stima e fiducia. Caduti sospetto e diffidenza oggi esse stesse si rivolgono a me per chiedere consigli e per farmi partecipi delle loro decisioni. Sovente mi dicono:
“Cristina tu sei parte di questo Centro, tu sei parte nostra”.
È così che è iniziato un cammino di testimonianza e di dialogo. Attraverso i contatti personali, l’affetto e la vicinanza ai loro bisogni e difficoltà, testimonio loro l’amore di Dio, la sua tenerezza e la sua consolazione che si manifesta, soprattutto, per i più piccoli ed emarginati.
Camminando con loro e rispettando il loro ritmo sto imparando a conoscere meglio questa cultura tanto diversa dalle altre culture africane, amalgamata con la cultura araba e la cultura nomade degli afar, tribù autoctona di questa terra.
Le ragazze più grandi mi rivolgono molte domande sulla mia vita personale: che cosa significa essere suora, perché non mi sposo, perché non ho bambini… Tutti i giorni mi sottopongono quesiti di questo genere e mi raccontano la vita del profeta Mohamed, suoi fatti e detti. Attraverso le loro domande mi rendo conto della necessità di dover dare risposte chiare, utilizzando un linguaggio comprensibile, basate su una conoscenza reale sia della mia fede cristiana, e della vita sociale e religiosa di chi ascolta.
Per amare l’altro, per amare un popolo, bisogna conoscerlo, conoscere il suo ambiente vitale, rispettare la sua fede, le sue convinzioni, la sua cultura. Solo così è possibile preparare il terreno per un dialogo vero e costruttivo, intessuto di speranza, condividendo sofferenze e lotte per il raggiungimento di un futuro migliore.
La nostra presenza come Religiose Missionarie in terra musulmana ha essenzialmente una missione: assicurare la presenza viva del Vangelo, non solo attraverso le attività per se stesse, ma attraverso gli impegni vissuti nella gioia e realizzati con amore; questo si esprime nell’accoglienza sorridente e serena; nella disponibilità e nella vita vissuta con semplicità.
È questa la condizione perché tutti possano vedere in noi un segno dell’amore di Dio e del Suo Vangelo.
Essere Religiosa Missionaria in questa terra Gibutina, è per me un invito alla riconoscenza e alla gratitudine verso Dio che mi ha scelta, ed è anche una chiamata a tornare costantemente all’essenziale: Cristo e il Suo Vangelo, è credere che l’amore di Dio ci spinge a scoprirlo oltre i confini dei Cristiani: è vederlo negli altri, in coloro che sono diversi per fede e per cultura, e soprattutto nei più poveri.
É accettare di non poter parlare apertamente della mia fede, di vivere fraternamente con la gente anche se il loro credo è diverso dal mio.
È rendere grazie al Signore per questo breve ma intenso tempo vissuto come missionaria in Djibouti, in un mondo cosi diverso, sfidante e differente. La croce di Gesù da loro rifiutata è proprio quella che mi purifica, mi sostiene e mi invita a porre la mia fiducia in Lui e dirgli: «Fa o Signore che oggi io guardi ai miei fratelli e alle mie sorelle con gli occhi pieni d’amore, che io li accolga come coloro che tu desideri amare per mezzo mio. Fa soprattutto, Signore, che io sia comprensiva e serena e che tutti quelli che mi incontrano sentano la tua presenza, il tuo amore e la tua consolazione. Riempimi della tua bontà, del tuo amore della tua speranza perché con tutta la mia vita, come Maria possa rivelarti e farti conoscere».
SCHEDA sul vescovo PAUL HINDER, uno svizzero nel Golfo
Fonte: Chiara Zappa, Noi, cristiani d’Arabia, EMI, Bologna 2011, pagg.49-56.
«Se mio padre, povero contadino della Svizzera tedesca, vedesse oggi suo figlio frequentare i palazzi degli sceicchi del Golfo, sono sicuro che mi direbbe: “Paul, ma dove sei finito?”». Lui stesso non avrebbe mai immaginato di essere chiamato a ricoprire un ruolo così speciale e delicato: quello di pastore di una Diocesi sconfinata, nel cuore più profondo dell’Islam. La sede del vicariato ad Abu Dhabi è già da sola l’immagine di ciò che significa la missione di quello che qui per tutti è semplicemente “il vescovo Paul”: dietro alla facciata del piccolo edificio bianco e marrone spuntano, quasi fossero parte di un unico complesso, quattro minareti. Sono quelli della moschea Mohammad Bin Zayed.
«Quando venni nominato vicario d’Arabia, continua nel suo racconto, un mio amico e confratello vescovo in Europa mi inviò un messaggio in cui scriveva: “Congratulazioni, anche se non so che cosa tu vada a fare là nel Golfo…”. Gli risposi: “Grazie per la lettera, ma ricorda che, se guardiamo i numeri, la mia diocesi è più grande della tua!”»
[Il vescovo Paul] spiega come la chiesa d’Arabia rappresenti in realtà un laboratorio a sé, del tutto peculiare. «È una Chiesa giovane, vivace, fatta di fedeli di moltissime nazionalità e tradizioni diverse, a differenza delle altre chiede del Medio Oriente: tradizionali, con sempre meno fedeli ma strutture pesanti».
Che cosa significa, quotidianamente, guidare una comunità multinazionale e multiculturale? …
«Le nostre parrocchie sono frequentate da fedeli di oltre cento nazionalità… sinonimo di una ricchezza incredibile: di tradizioni ecclesiali, di apporti culturali, di ministeri… nella parrocchia di Abu Dhabi abbiamo una decina di cori! A saint Joseph si canta oltre che in inglese e francese, in tagalog, arabo, urdu, konkani, singalese, malayalam, tamil… Il mix, nelle parrocchie del Golfo, riguarda anche la composizione sociale di chi le frequenta… C’è un po’ di tutto!»
… L’esperienza di essere cristiani in quella che è considerata la culla dell’Islam è l’altra grande sfida della chiesa d’Arabia… qualche decennio fa in cima ai luoghi di culto cristiani spiccava la croce: un segno che in questi tempi non è concesso… «Il fatto di non essere musulmano crea una sorta di barriera fra noi e gli autoctoni… come non musulmani, noi siamo di fatto cittadini di serie C, vescovo compreso… Vengo trattato con rispetto, … ma devo in un certo senso “stare al mio posto”… Dialogare è spesso difficile anche in senso letterale: la maggior parte delle guide religiose non conosce altre lingue oltre all’arabo. Creare legami personali diventa quindi davvero arduo».
… Sopportazione, incomprensioni, difficoltà pratiche… Ma allora essere vicario nella penisola arabica è una specie di condanna? Monsignor Hinder scoppia a ridere: «Ma scherza? Al contrario, essere vescovo qui è straordinario! Prima di tutto perché i miei cristiani sono speciali! … la nostra è una comunità con una fede forte, entusiasta, che in certi casi viene riscoperta qui… I fedeli che incontro quotidianamente sono pieni di entusiasmo, speranza, generosità, pronti a offrirsi a vicenda supporto, morale ma anche pratico. Ecco: io so per chi sono qui… i miei amici di messa venuti in visita qui hanno constatato una fede e una vitalità che non vedono da nessuna parte in Europa… qui sperimentiamo che cosa significhi convivere fisicamente con persone e culture diversissime…».
SCHEDA su Renato, l’architetto di Dio
Fonte: Chiara Zappa, Noi, cristiani d’Arabia, EMI, Bologna 2011, pagg. 82-83.
Essere immigrati in terra d’Islam rappresenta un’opportunità ricca di sfide cruciali. Ne è convinto fortemente Renato, che, grazie alla sua professione, si trova ogni giorno confrontarsi con colleghi autoctoni, e quindi con il loro credo. «Quando sono arrivato in Qatar la mia fede era piuttosto superficiale – racconta –, ma il confronto quotidiano con l’islam mi ha obbligato ad approfondire la mia identità. Discutendo con i miei colleghi musulmani sono stato forzato ad andare all’essenza della mia religione». L’ex milanese premette che «in tanti anni di vita qui, non abbiamo mai avuto seri problemi di convivenza in quanto cristiani nonostante le restrizioni dovute al rispetto di alcune norme islamiche, in particolare durante il mese sacro di Ramadam, durante il quale tutti devono evitare di mangiare, bere e fumare in luoghi pubblici dall’alba al tramonto. In generale, vale la regola che, se si rispetta, si è anche rispettati, come dimostrano per esempio gli auguri che ricevo in occasione del Natale e della Pasqua da parte degli amici e colleghi locali. Più di una volta mi è capitato di sentirmi un ponte tra due fedi».
Casiraghi confessa che la vicinanza con un popolo molto religioso ha rafforzato anche la sua pratica di cristiano. Per spiegarsi, mi racconta un aneddoto di vita quotidiana: «L’altro giorno mi trovavo per lavoro in un ufficio del Ministero dei lavori pubblici e, venuta l’ora della preghiera islamica, il funzionario si è ritirato a pregare. Allora, anch’io mi sono sistemato in una stanzetta per parlare con il mio Dio… Vivere qui ci rende automaticamente testimoni di Cristo, perché i qatarini ci osservano in quanto cristiani: noi abbiamo la responsabilità di mostrare che il cristianesimo non è identificabile con lo stile di vita amorale e ateo che va per la maggiore in Europa».
Anche questa chiesa in mezzo al deserto, insomma, rappresenta in realtà un’oasi. Un’oasi che cresce, nonostante tutti gli ostacoli. «Stiamo progettando un nuovo auditorium polifunzionale, visto che gli spazi per le iniziative non sono mai abbastanza», racconta il parroco, padre Peter, «ma soprattutto abbiamo in cantiere un “Villaggio del Rosario”: avrà stazioni con tutti i misteri e gradualmente potrà diventare un centro di pellegrinaggio. Non voglio sminuire le difficoltà che dobbiamo ancora sopportare, ma nonostante tutto vedo un futuro più luminoso», afferma padre Peter. «Le nuove generazioni sono più aperte e pian piano porteranno avanti il cambiamento».
L’architetto di Dio, da parte sua, ormai ha imparato ad affidarsi alla Provvidenza: «Mi piace pensare che i sacrifici fatti per arrivare ad avere una chiesa servano a favorire il dialogo costruttivo fra cristiani e musulmani e a combattere i pregiudizi, e magari la nostra opera architettonica sarà un monito per ricordare al popolo del Qatar l’importanza della tolleranza. Ma non dimentichiamo che, come diceva Madre Teresa, tutti noi siamo solo una matita nelle mani di Dio: per la sua volontà siamo qui e cerchiamo di essere suoi testimoni degni. Per il resto, tutti i nostri progetti per il futuro sono affidati a lui, che deciderà che cosa farne».
Di Deborah Corti
Deborah Corti
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