Se vi capitasse di leggere che al mondo subisce violenze 1 donna su 3, ci credereste?
Ci sono notizie che non fanno notizia, fatti quotidiani che l’opinione (e l’ignoranza) comune considera eccezionali, avvenimenti che non si immaginano, vite che non si raccontano, verità che spariscono. E se vi capitasse di leggere che al mondo subisce violenze nel corso della propria vita almeno 1 donna su 3, ci credereste? E se scopriste che la maggior parte delle violenze sessuali subite dalle donne è commessa da uomini con i quali esse hanno un rapporto di intimità? E che il primo rapporto sessuale del 47 % delle ragazze tra i 10 e i 24 anni nel mondo è frutto di costrizione o violenza?
Per un popolo immerso in una cultura mediatica, consumistica e populista, la notizia di un rapporto uomo-donna non naturale, ma pericoloso e nocivo, diventa ascoltabile ed orecchiabile solo in telegiornali sulle perversioni vere o presunte di personaggi importanti, conosciuti e potenti.
Ma di tutto quanto accade quotidianamente nel mondo, voi non ne sapete nulla. Noi non ne sappiamo nulla.
Allora oggi su questa schermata colorata, attirati da una grafica accattivante, nella speranza di leggere qualcosa di allegro e rilassante, vi scontrate con una notizia che almeno un po’ di mal di pancia (mi auguro) ve lo farà venire.
Secondo l’Osservatorio delle Nazioni Unite Women Watch, le violenze contro le donne riscontrate nel mondo possono essere suddivisibili in quattro categorie: fisica, psicologica, sessuale, economica. Spesso sono agite contemporaneamente, dunque è difficile rintracciare casi riguardanti una sola delle quattro categorie. I matrimoni precoci e forzati, le mutilazioni genitali, il femminicidio, la tratta, le violenze commesse in guerra o in situazioni post-conflitto. Esistono sempre nuove forme di violenza che vengono perpetrate contro le donne, in un’evoluzione perversa dell’inventiva umana.
Viceversa altre violenze hanno una fisionomia più “classica”, come gli stupri in tempo di guerra: sono venuti allo scoperto e sono stati denunciati quelli della Bosnia e del Ruanda, con la costituzione di due tribunali internazionali speciali (ICTY ad Aja nel 1993 e ICTR ad Arusha nel 1994) i quali però hanno prodotto fino ad oggi pochissime condanne in rapporto al numero spaventosamente alto delle violenze commesse nella logica premeditata del genocidio (uccidere il potere di controllo del nemico invadendo il corpo delle sue donne, stuprandole ripetutamente e costringendole a gravidanze che avrebbero portato alla nascita di figli della razza “giusta”, uccidere i figli del nemico nell’ottica di una “pulizia etnica”, tenere le donne rinchiuse nei “campi di stupro” fino a quando per loro sarebbe stato impossibile abortire).
L’opinione pubblica è stata sconvolta dal fatto che ancora alla fine del XX secolo siano accadute tali brutalità, ma soprattutto dal fatto che siano accadute alla porta accanto del mondo ritenuto “civile” (solo per la capacità di utilizzare tecnologie “innovative” a scopo di guerra), a casa del dirimpettaio dell’Occidente, di quello a cui fino al giorno prima aveva chiesto il sale che gli mancava. Detto altrimenti, quello presso il quale gli Italiani andavano in vacanza approfittando delle belle e vicine coste per poter passare “le ferie all’estero”.
Dal 2001 si nota un decremento nelle incriminazioni per violenza sessuale, indice di un calo di interesse sul tema. Eppure in Birmania, dove la pulizia etnica ha visto centinaia di bambine e adolescenti di etnia shan e mon rinchiuse da membri dell’esercito in accampamenti dove venivano utilizzate come schiave sessuali, nel 2006 i militari hanno ricevuto l’ordine di reclutare due ragazze in ognuno dei 15 villaggi del distretto di Ye per la sfilata del giorno dell’Indipendenza. Esse sono state poi violentate per tre giorni consecutivi. E il caso non è eccezionale.
Parliamo di stupri di massa, stupri come arma di guerra, stupri come mezzo di genocidio, ma le violenze contro le donne sono diffuse in qualsiasi ambiente e circostanza “normale”.
Amnesty International, che il 5 marzo 2004 ha lanciato a livello mondiale la campagna Stop Violence Against Women (tradotta in italiano con lo slogan “Mai più violenza sulle donne”), distingue tra violenza all’interno della famiglia, all’interno di una comunità e quella perpetrata da attori statali. Nella prima categoria rientrano la violenza domestica (è la più diffusa al mondo e include gli abusi fisici e psicologici, gli atti di tortura, lo stupro coniugale, l’incesto, i matrimoni forzati o prematuri, i “crimini d’onore”, lo stalking) e gli abusi e maltrattamenti subite dalle lavoratrici domestiche; tra le violenze contro le donne nel contesto di una comunità rientra il traffico di esseri umani (la terza più grande fonte di profitto del crimine organizzato internazionale, dopo la droga e le armi) e le mutilazioni genitali femminili; attori statali sono invece colpevoli di abusi nei conflitti armati (bambine soldato, stupri, torture) e di torture in detenzione.
Nel 2002 un rapporto dell’organizzazione Save the children e dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha portato all’attenzione internazionale alcuni casi di violenze sulle donne prodotte dalle forze di mantenimento della pace dell’Onu; nel 2004 il segretario generale delle Nazioni Unite ha rilevato che in Repubblica Democratica del Congo, dove operavano i Caschi blu (Monuc), questi chiedevano favori sessuali in cambio di denaro, cibo e lavoro!
Non esistono statistiche che permettano di quantificare questo tipo di reati contro l’umanità: la paura dovuta alle minacce dei criminali, il rigetto da parte della comunità, il ripudio da parte della famiglia che molte donne subiscono in paesi tanto diversi tra loro (Repubblica Democratica del Congo, Ruanda, Uganda, Bosnia, Colombia sono solo alcuni esempi), il senso di colpa che molte portano dentro di sé per tutta la vita (il numero dei suicidi è piuttosto alto) e che a volte esce dal loro corpo sotto le sembianze di un figlio per il quale provano amore ed odio, impediscono alle donne di denunciare, di raccontare i fatti accaduti. Le testimonianze che si hanno a disposizione bastano però a far intuire che la crudeltà umana può arrivare ad atti inimmaginabili, incomprensibili, in ogni epoca storica (stupri e torture perpetrati in Bosnia negli anni Novanta furono molto simili a quelli commessi dagli amministratori belgi di re Leopoldo in Congo alla fine del XIX secolo, sulla popolazione locale non ritenuta umana).
Alla base di tali atti vi sono rapporti di forza ineguali tra i generi (i ruoli e le interpretazioni che ogni società costruisce attorno al sesso delle persone e su cui basa il suo funzionamento) che degenerando danno vita ad atti abominevoli. Spesso non sono religioni o credi a determinare tali differenze di diritti o di potere decisionale, ma tradizioni con radici lontane nella storia di ogni popolo e nella storia della sua interazione con le altre culture.
La logica umana, umanistica o umanitaria che da’ per scontate l’umanità della donna e la dignità della sua persona, impone che questo rapporto di forze debba essere esplicitamente rimesso in questione e cambiato al più presto, non bastando il suo inserimento in politiche o linee direttive giuridiche troppo spesso influenzate da interessi specifici, necessitando invece di una messa in pratica quotidiana e locale, contemporaneamente in ogni continente.
Oggi vi chiedo: chi lavora, diffonda la notizia del giorno (di ogni giorno!) tra i suoi colleghi; chi studia chieda ai professori di dedicare qualche ora a un dibattito e/o ad interventi di esperti sulla questione (che, legata a tante altre, può da sola dar corpo a una lista di corsi universitari); chi è capitato qui per caso, si dica fortunato di aver scoperto un “evento quotidiano” che costituisce una gran fetta di mondo e di cui i telegiornali non parlano; chi crede (in qualcosa, in Qualcuno)… faccia una preghiera. A modo suo.
Nadia Anselmo
Nadia Anselmo
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