Mostraci il Padre e ci basta (1).
Chi conosce anche solo superficialmente gli scritti del Nuovo Testamento sa che essi non fanno mai cenno all’aspetto fisico di Gesù. Il ricordo del Maestro è ancora molto vivo e i discepoli non sentono il bisogno di descriverlo nella sua fisicità.
Chi conosce anche solo superficialmente gli scritti del Nuovo Testamento sa che essi non fanno mai cenno all’aspetto fisico di Gesù. Il ricordo del Maestro è ancora molto vivo e i discepoli non sentono il bisogno di descriverlo nella sua fisicità. L’interesse primario degli autori è di penetrare il suo intimo mistero. D’altro canto non sarebbe stato possibile tratteggiare il volto di una persona che racchiude in sé in modo perfetto ed armonico l’umano e il divino. Per questo il Nuovo Testamento si presenta come un documento aperto, dove ognuno è chiamato a rappresentare i tratti del volto del Maestro attraverso l’ascolto delle sue parole e la contemplazione delle sue azioni.
In noi, come anche nei destinatari degli scritti neo-testamentari ed anche in tutte le persone di ogni tempo, è vivo il desiderio di oltrepassare i limiti spazio-temporali per vedere la divinità. Già la comunità di fede dell’Antico Testamento desiderava contemplare il volto di Jahvè. Solo coloro che hanno mani innocenti e cuore puro, afferma il salmista, possono entrare «nel santuario di Dio per visitarlo», e poi commenta: «Di tal genere sono quanti lo cercano; quanti cercano il volto di Dio» (Sal 24,6).
Solo se si entra nel recinto santo si può gustare la presenza, anche se invisibile, di Dio. Nei momenti più tormentati della vita, quando dalla profondità del cuore sgorgano solo gemiti e lamenti, il salmista sente ancora di più l’anelito di fermarsi e contemplare, e a se stesso dice:
«Disse il mio cuore – Va, cerca il suo volto!
Il tuo volto, Jahvè, io cerco.
Non celare il tuo volto» (Sal 27,8-9).
Per poter contemplare il volto del Signore il salmista ha bisogno di ospitalità e si dichiara disposto di abitare nella sua casa tutti i giorni della sua vita (Sal 27, 4). Il permanere nel Tempio è garanzia per una esperienza mistica. Ritroviamo questo anelito di infinito anche nel Salmo 105, che è un inno alla fedeltà di Jahvè. Qui troviamo un’esortazione che il salmista indirizza ai pii Israeliti:
«Vantati nel suo nome santo,
si allieti il cuore di chi cerca Jahvè,
Investigate Yaweh e la sua potenza,
cercate il suo volto continuamente.
Ricordate le meraviglie che operò
i prodigi e i giudizi della sua bocca» (vv. 3-5).
Il volto di Dio deve diventare l’oggetto di una appassionata ricerca. Il suo volto potrà essere contemplato solo attraverso una permanenza nella sfera divina e soprattutto attraverso la contemplazione delle meraviglie operate da lui nel fluire degli eventi della storia. Leggendo in essi le vestigia di Dio si potrà tratteggiare i contorni del suo volto santo.
La domanda di Filippo
Lo stesso anelito del popolo antico è anche espresso dall’apostolo Filippo quando chiede a Gesù: «Mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14, 9). La richiesta dell’apostolo è suggerita da quanto il Maestro aveva insegnato subito prima. Gesù aveva affermato di sé: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6). Con questa affermazione egli si manifesta con le sue funzioni di mediatore, rivelatore e salvatore. Subito dopo aggiunge: «Nessuno va verso il Padre se non per mezzo di me». Gesù rivela che lui e solo lui è la via di accesso al Padre. Non esiste più tempio, né legge mosaica, né sapienza antica che possano d’ora in poi condurre al Padre.
A questo punto alcune domande sono d’obbligo. Perché Gesù è l’unico mediatore per giungere al Padre? Perché solo lui ha le chiavi d’accesso all’eterno mistero di Dio? La risposta a questi interrogativi non si fa attendere. Egli è l’unica via che conduce al Padre perché solo lui vive nel Padre e il Padre in lui. Questa misteriosa realtà spiega anche l’affermazione seguente: «Se conosceste me, conoscereste anche il Padre; ma fin d’ora lo conoscete e lo avete visto» (Gv 14, 7). Il Deus absconditus (Dio nascosto) è diventato dunque visibile perché tra lui e Gesù esiste una mutua immanenza. Dal nascondiglio della sua divinità Dio è venuto allo scoperto nella persona di Gesù, si è rivelato, e cioè si è tolto il velo.
Il modo di ragionare del Maestro è un po’ enigmatico per gli apostoli e suscita la richiesta di Filippo di vedere il volto del Padre. Filippo non afferra subito il concetto di mutua immanenza, e cioè che l’uno vive nell’altro. Per lui Gesù è Gesù e il Padre, il Padre. La richiesta di Filippo è la nostra, è quel desiderio ardente che giace da sempre nel cuore dell’umanità: «Mostraci il Padre e ci basta». Con la sua richiesta Filippo vorrebbe una immediata e pronta rivelazione in potenza sulla linea dei grandi prodigi dell’Antico Testamento. Il verbo «mostrare» appare in Giovanni 2,18, dove gli increduli Giudei chiedono a Gesù di mostrar loro un segno, che garantisca che lui è il vero Messia. Appare poi in 8, 20 dove il Padre, in intima relazione con il Figlio, gli mostra le opere da compiere; ed infine in 10, 32, dove Gesù ha mostrato ai Giudei le sue molte opere come provenienti dal Padre. Per Giovanni, dunque, il verbo «mostrare» è un verbo di rivelazione. Gesù deve «rivelare», cioè, togliere il velo che nasconde dall’eternità il volto del Padre.
Il termine riecheggia la richiesta di Mosè a Jahvè: «Mostrami la tua gloria» (Es 33, 18). Dopo tanti anni e tante peripezie affrontate per condurre il popolo di Dio verso la libertà, Mosè esprime l’anelito di ogni persona. Vuole capire se ha speso invano la sua vita al servizio di Dio. Sembra voglia ricevere una ricompensa. Secondo lui la massima ricompensa per la sua totale obbedienza alla voce di Jahvè, sarebbe l’accesso stabile nel mistero di Dio. Come Mosè è stato con Dio, così anche Filippo è stato con Gesù fin dal battesimo di Giovanni e quindi come Mosè ha diritto ad una ricompensa. Egli vuole avere accesso al volto del Padre.
A questo punto sul volto del Maestro deve essersi dipinto un velo di tristezza frammisto a delusione e dice: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?» (Gv 14, 9). È la delusione di un Maestro che ha dedicato tutto il suo tempo ad insegnare, ad instillare nel cuore dei discepoli il suo insegnamento, a correggere le loro false concezioni circa il Messia. Eppure Filippo non ricorda tali insegnamenti. A più riprese il Maestro aveva dichiarato di essere Signore (vedi Gv 8, 24.28.58; 13, 13) ed aveva inoltre rivelato di essere una sola cosa con il Padre (Gv 10, 30) e di vivere nel Padre, come questi in lui (Gv 10, 38).
Filippo aveva tutti gli elementi per credere nella immanenza tra Gesù e il Padre, e nella sua divinità. Avrebbe dovuto sapere che vedere Gesù era come vedere il Padre (Gv 14,9). Avrebbe dovuto sapere che nel Cristo era possibile vedere il Padre perché egli è l’unico che dall’eternità era rivolto verso il suo seno (Gv 1,17-18; 6, 46), e che era venuto per rendere testimonianza alle realtà celesti da lui contemplate (Gv 3, 11.32; 8, 38). Perché dunque Filippo chiede di vedere il Padre? Filippo è il tipo di ognuno di noi e non riesce a tratteggiare il volto divino del Maestro perché non ha fatto il salto definitivo della fede. Per riconoscere il volto di Dio sul volto dell’uomo di Nazaret è necessario credere. È solo attraverso la fede che il velo steso sul volto di Gesù si dissolve per far apparire le sembianze divine. In altre parole Gesù nasconde un mistero affascinante che può essere contemplato solo attraverso l’ascolto delle sue parole e attraverso la contemplazione delle sue azioni: le une diventano l’eco della voce del Padre e le altre il riverbero visivo che ne descrive la bellezza e il fascino.
Ascolto e contemplazione sono gli unici mezzi che permettono di dipingere il volto di Gesù che ha le stesse sembianze di quello del Padre. Fuori di questo si continua a rimanere nelle tenebre e a brancolare nel buio dei nostri pensieri.
(continua)
Antonio Magnante, IMC
Antonio Magnante
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