Il Kenya è il paese in cui ha realizzato fino all’ultimo la propria vocazione missionaria e si è spesa senza limiti nello straordinario apostolato, che ha caratterizzato l’intero corso, e ogni istante pienamente vissuto, della sua vita di missionaria della Consolata.
Suor Irene Stefani, Mware mwendi ando (La suora che vuol bene a tutti), verrà proclamata beata in Kenya il 23 maggio 2015.
Una vita spesa tutta e solo per la missione
Suor Irene nacque ad Anfo, nel bresciano, nella Val Sabbia, il 22 agosto 1891. Il suo nome di battesimo era Aurelia Giacomina Mercede, ma i famigliari la chiamavano affettuosamente Cede. A 13 anni dichiarò di voler diventare missionaria, ma i suoi cercarono di dissuaderla, pensando a una sua infatuazione passeggera. Inoltre la morte prematura della madre, e il dover aiutare il padre e le sorelle, la costrinsero a restare fra le mura domestiche. Ma il richiamo e il fascino della missione erano tali che Mercede, poco prima di compiere i 20 anni ruppe ogni indugio. Nel 1911 partì per Torino, dove entrò a far parte della neonata congregazione delle missionarie della Consolata. Lo stesso fondatore, Giuseppe Allamano, le impose il nome di Suor Irene, presentendo e percependo in quella ragazza come uno speciale dono fatto dal Signore per lo sviluppo e il successo dell’apostolato missionario in terra d’Africa.
L’esperienza africana di Suor Irene iniziò nel 1914, quando la giovane ricevette il suo primo mandato missionario, che la diresse a Mombasa, in Kenya, dove sbarcò all’inizio del 1915. Rimanevano ancora 9 posti sulla nave “Porto Alessandretta” in rotta per il Kenya. Lei fu fra quei 9 ultimi passeggeri. Non avrebbe più fatto ritorno in Italia.
In pieno conflitto mondiale, in Kenya e Tanzania, fra le colonie inglesi e quelle tedesche, nemiche fra loro, la suora si dedicò, senza mai risparmiarsi, senza mai accusare la minima fatica, a prestare ogni cura possibile nell’assistenza infermieristica dei soldati feriti o morenti, soprattutto i Carriers, africani che venivano arruolati dagli Inglesi come portatori di materiale bellico, o per costruire strade e ponti, sempre umiliati e maltrattati, ai quali lei non lesinava mai il suo sorriso, il suo servizio d’infermiera e il suo amabile discorrere su Dio, che sfociava poi, quasi sempre, nella somministrazione del battesimo cristiano.
Chi la osservava e ci lavorava insieme, ne rimaneva colpito. Mai un attimo di esitazione, o di smarrimento, o di debolezza. Un medico la definì “angelo della carità”. Condividevano questo giudizio gli stessi indigeni, i musulmani, tutti gli ufficiali e i soldati. Un padre missionario che la ebbe a fianco come collaboratrice instancabile, generosa e sempre piena di entusiasmo, disse di lei: “Quella suora non soltanto corre, ma vola sulla via della perfezione”. Gli africani che furono avvicinati da lei la chiamarono “Nyaatha”, espressione in lingua Kikuyu, che significa: “Madre piena di misericordiosa e dolcezza”. Quando la vedevano scattare e correre con i suoi celebri scarponi ovunque ci fosse bisogno di lei, la indicavano con le parole: “Mware mwendi ando” (la suora che vuol bene a tutti).
Il suo apostolato non si limitava all’assistenza ambulatoriale, ma anche in cucina si dava da fare come sguattera e tuttofare, e a scuola come insegnante, e in chiesa come catechista e guida di preghiera e di canto. Inoltre redigeva di suo pugno e con propri pensieri le lettere che gli africani, analfabeti, le chiedevano di scrivere e inviare ai loro figli lontani, per dare e chiedere notizie, senza mai trascurare di recare parole di conforto, incoraggiamento e invito a non smarrire la fede. La sua umiltà era tale che accettava ogni rimprovero o critica, o anche offese e umiliazioni, dovute a invidie e maldicenze, senza mai replicare, senza mai dubitare dell’amore di Dio, di cui lei voleva a tutti i costi farsi latrice obbediente e sollecita. Quando fu nominata superiora, e anche quando le fu ordinato di insegnare, le sue consorelle, gli stessi studenti, insieme ai colleghi insegnanti, dubitavano delle sue capacità. Queste pene, inflittele persino da chi lei aveva tanto aiutato, la facevano sentire inetta e inutile, ma mai si perse d’animo o venne meno nel suo desiderio di praticare e diffondere la carità.
Spinta da un intimo desiderio del cuore e dal suo intenso fervore spirituale, Suor Irene decise un giorno del 1930 di donare la propria “povera e inutile” vita. La sua superiora glielo sconsigliò, ma data la sua pervicace e convinta insistenza, alla fine cedette e le diede il permesso. Fu così che, assistendo un malato di peste polmonare (lo stesso giovane maestro che, per prendere il suo posto, aveva sparlato di lei nella scuola, diffondendo la voce che non era adeguata), fu contagiata anche lei dal morbo. Poche settimane dopo morì a soli 39 anni. Era il 31 ottobre del 1930.
La strada per la canonizzazione
La causa di canonizzazione fu avviata in Kenya, nel marzo 1984. Suor Irene venne dichiarata venerabile da papa Benedetto XVI il 2 aprile 2011. Il miracolo che ha contrassegnato il suo passaggio alla beatificazione, è la moltiplicazione dell’acqua dal fonte battesimale nella chiesa di Nipepe, in Mozambico, nel gennaio 1989. Acqua che servì per 4 giorni consecutivi, senza mai esaurirsi, ai bisogni urgenti di almeno 270 persone, vittime della guerra civile, che avevano trovato rifugio in quella parrocchia della diocesi di Lichinga, nel Niassa. Papa Francesco concluse il processo di beatificazione della giovane suora il 12 giugno del 2014 autorizzando la promulgazione del decreto sul miracolo compiuto da Dio per intercessione di Suor Irene.
«Tutta di Gesù, nulla di me»
“Tutto con Gesù, nulla da me. Tutta di Gesù, nulla di me. Tutto per Gesù, nulla per me”, aveva scritto di sua mano suor Irene nel suo programma di vita. In terra di missione ebbe più di un’occasione per metterlo in pratica: nell’umiltà dei primi incarichi di fattoria, nelle difficoltà di imparare la lingua, nella disponibilità a prendersi carico di ruderi di uomini ricoverati negli ospedali da campo, stremati dalla fatica disumana cui erano stati sottoposti nei cantieri di lavoro della guerra coloniale. Negli ospedali militari dove prestò servizio, suor Irene doveva lavare piaghe, curare ferite, ma soprattutto restituire dignità a poveri esseri umani sfiancati dalle privazioni. Sembra che ci riuscisse più con il sorriso che con le parole, secondo il suo stile, fatto di silenzio e carità umile.
Al termine della prima guerra mondiale, il suo apostolato la vide attiva nella scuola, ma non si dimenticava dei malati, ogni volta che poteva farlo, correva da loro. E aiutava le mamme, consolava gli anziani. Non si potevano contare le volte in cui riuscì a salvare da morte certa neonati abbandonati o malati ritenuti senza speranza e in fin di vita. Nel distribuire il battesimo, conseguì addirittura un record: riuscì a somministrare questo sacramento su circa 4 mila persone.
Un episodio, fra i tantissimi che le si attribuirono, fu significativo del suo zelo per le anime, parola questa, Anime, che compariva sempre nei suoi appunti ed epistole con la lettera maiuscola, e per cui aveva una predilezione sublime e autentica: un giorno capitò che un suo paziente, gravemente malato, di nome Athiambo, fu ritenuto senza vita e portato sulla spiaggia, perché fra tanti mucchi di cadaveri fosse inghiottito dalle acque del mare. Non trovandolo più in corsia, e sapendo dove lo avevano trasportato, la suora ebbe la sensazione che poteva ancora salvarlo, almeno la sua anima. Allora corse verso la costa e lì, rovistando fra i corpi inanimati, finalmente lo riconobbe, lo trovò che respirava ancora. Fece venire i barellieri perché lo facessero ritornare al campo e dopo qualche giorno Athiambo spirò, ma dopo aver ricevuto il battesimo.
Anche gli scarponi che calzava e il casco coloniale che indossava sempre, non solo il suo sorriso, la facevano riconoscere. La gente sapeva che i suoi piedi erano sofferenti, i suoi calli le procuravano dolori lancinanti. Eppure il suo passo era sempre veloce, la vedevano correre, slanciarsi verso le anime che voleva, questo il suo compito, a ogni costo salvare.
I suoi resti mortali sono tumulati nella cappella della Parrocchia di Mathari, Nyeri (Kenia), affidata alle Missionarie della Consolata.
Le tappe della sua vita
22 agosto 1891: nasce ad Anfo, in provincia di Brescia, e riceve il Battesimo con i nomi Aurelia Jacoba Mercedes;
1904: a soli tredici anni, confessa ai genitori il desiderio di diventare missionaria;
19 giugno 1911: lascia Anfo per entrare nelle Missionarie della Consolata di Torino;
28 gennaio 1912: a Torino, in occasione della vestizione religiosa, riceve il nome di Suor Irene;
29 gennaio 1914: fa la prima Professione Religiosa;
28 dicembre 1914: parte per l’Africa;
30 gennaio 1915: arriva in Africa;
25 agosto 1916: parte per l’ospedale militare di Voi come crocerossina. Lavorerà anche a Kilwa Kiwinje, Lindi e Dar-es-salam (Tanzania);
gennaio 1919: ritorna alla missione in Kenya;
maggio 1919 – maggio 1920: assiste le giovani nel convento indigeno delle Suore di Maria Immacolata di Nyeri;
25 maggio 1920: arriva a Ghekondi, nel kikuyu, dove lavorerà fino alla morte e dove riceverà il nome “Nyaatha”: donna tutta misericordia;
29 gennaio 1924: emette la Professione Perpetua, a Nyeri;
17 ottobre 1930: ottiene il permesso dalla Superiora suor Ferdinanda di offrire “la sua povera inutile vita” per le “missioni”;
31 ottobre 1930: muore alle 22,30, assistita da tre sorelle e dal Padre della missione di Ghekondi.
Intervista a suor Margarita Bedoya Garcia, Missionaria della Consolata, responsabile del Centro Spiritualità Irene Stefani, a Caprie (Torino).
Suor Margarita è un vanto per le Suore Missionarie della Consolata, sapere della beatificazione di Suor Irene Stefani. Che cosa ha caratterizzato in particolare l’apostolato e l’esperienza missionaria di questa vostra consorella?
«La beatificazione di suor Irene significa per noi Missionarie e Missionari della Consolata una conferma della santità del Carisma donatoci dal beato Giuseppe Allamano, nostro Fondatore. Significa unirci alle schiere di coloro che, pieni di stupore, riconoscono l’onnipotenza dell’amore misericordioso di Dio che ci sprona a non stancarci mai di riconoscere le meraviglie che compie quotidianamente in noi sue figlie e figli, perché Dio ci ama con tenerezza di Padre. La caratterista apostolica di Suor Irene, è stata la sua carità senza limiti, vissuta nell’umiltà, una fede salda e una gioia evangelica che comunicava a tutti con il suo sorriso, la sua bontà, la sua disponibilità sempre.
È un fatto che la preoccupazione principale e prioritaria di suor Irene fosse la salvezza delle anime, tanto che lei stessa quando scriveva la parola anima, ci metteva sempre la lettera maiuscola. Da dove derivava questa peculiare sensibilità di suor Irene, che aveva alimentato così tanto il suo zelo missionario?
Lei, figlia fedele del nostro Fondatore il Beato Giuseppe Allamano, rincorse con esattezza il suo insegnamento, il suo zelo per la salvezza delle anime, la sua spiritualità missionaria. L’Allamano ripeteva senza stancarsi: “Prima santi e poi missionari”, la santità per la salvezza delle Anime. E Suor Irene lo tradusse cosi: “Essere santa è dare la vita goccia a goccia, trapassando dal cuore fibra per fibra, tutto ciò che non sia di Dio. La santità consiste nel lasciarsi crocifiggere da Dio e dalle persone, tacendo, ringraziando, accettando senza perdere la pace”. Scriveva nelle sue lettere: “L’unica gloria è nel farsi santi, la morte è l’eco della vita”».
Il processo di beatificazione di Suor Irene Stefani è andato avanti senza difficoltà, o ci sono state esitazioni, ostacoli, dubbi?
«A mio avviso tutte le diverse tappe si sono svolte in maniera normale e direi che Suor Irene stessa dal cielo ci ha dato una mano, per arrivare all’ora di Dio: la sua beatificazione. Le difficoltà incontrate, sono state risolte anche con degli interventi straordinari e sopranaturali; e tutto ciò ci incoraggiava a continuare il cammino, con gratitudine e gioia».
Nella vita di comunità, come nelle famiglie, nel quotidiano compimento dei propri doveri, sono inevitabili invidie, gelosie e tensioni, Suor Irene come viveva e superava quei momenti difficili?
«A queste cose Suor Irene rispondeva con il suo silenzio e preghiera, o con una prudente espressione come: “Deo gratias!”, “correggetemi”, “chiedo perdono” e si ritirava con passo delicato. Il suo ultimo gesto è stato quello di offrire la sua vita in un momento di tensione nella chiesa di Nyeri».
Una celebre biografia su Suor Irene s’intitola “Gli scarponi della gloria”. Come mai tanta importanza data a quelle calzature?
«Sono un po’ il simbolo delle tantissime corse per salvare anime che suor Irene ha fatto nella sua vita, quegli scarponi impolverati e rovinati dall’uso che restano a testimonianza dei chilometri percorsi con qualsiasi tempo e a qualsiasi ora del giorno e della notte da quella instancabile evangelizzatrice. Suor Irene non perdeva un’occasione per salvare anime. Un esempio fra i tanti: un mattino, entrando in un capannone militare, trova un letto vuoto. È di Athiambo, un uomo che stava preparando al Battesimo, grave ma non troppo, per cui ha aspettato un giorno per amministrarglielo. Chiede informazioni e scopre che, avendolo preso per morto, lo hanno portato via, sulla spiaggia dove buttano i cadaveri. Suor Irene con i suoi scarponi addosso corre e lo trova ancora vivo, lo porta lontano dalla marea e lo battezza, poi corre all’ospedale e torna con una barella e due portantini. A suor Cristina Moresco, che le domanda se non sentiva ribrezzo a toccare tutti quei cadaveri, spostati per trovare Athiambo, suor Irene risponde: “Veramente sì, ma non pensavo che all’anima”. Ecco il segreto dei suoi atti eroici».
Un altro libro tutto su di lei s’intitola: “Il vangelo del sorriso”. Come mai si è voluto sottolineare il sorriso di suor Irene, come fosse la dote naturale in cui più si identificava?
«Il suo dolce sorriso è stato una caratteristica sua fin da piccola, che poi in missione è diventata la sua calamita per attrarre a Dio tanti suoi amati africani. Quando arrivò al nostro Istituto il 19 giugno 1911, la superiora fu colpita dal suo “bel sorriso” che fu immutabile sempre. Da altre testimonianze emerge il ricordo di essere una persona gioiosa, allegra e svelta. Con il suo sorridere esprimeva dolcezza, mansuetudine, atteggiamento tanto raccomandato dal nostro Fondatore, dato come consegna ai missionari e missionarie partenti. Suor Irene la fece sua, perché indispensabile a chi deve trattare con gli altri per condurli a Cristo. Nelle diverse testimonianze scritte dalle consorelle, dai padri missionari della Consolata che vissero con lei, si leggono espressioni come: “sorrideva sempre”; “per tutti aveva una parola amabile, delicata, incoraggiante, piena di speranza”. Lei era sempre allegra che a vederla faceva dimenticare le miserie e le pene passate. Durante l’esumazione del corpo di Suor Irene, l’8 settembre 1995 era presente una anziana che aveva conosciuto suor Irene, al vedere il suo corpo intero gridò con gioia e stupore: “ecco i suoi denti, gli stessi con cui ci sorrideva sempre”».
Il sorriso, l’umiltà, l’abnegazione, la preghiera costante caratterizzarono la vita di suor Irene. Che cosa ha rappresentato per gli africani questa beata?
«Nelle testimonianze dei suoi africani raccolte nel libro: “Nyaatha suor Irene narrata dai suoi africani”, di suor Gian Paola Mina, affiorano tutte le azioni indicate nel vangelo di Matteo 25,31-40: avevo fame, avevo sete, e così via. Per loro ha significato: “la nostra Nyaatha madre tutta misericordiosa, madre tutta tenerezza”; “la predicatrice di Dio, la battezzatrice di Dio”; “Noi abbiamo ascoltato le sue parole e abbiamo visto il suo amore, nessuno poteva resistere alla sua eloquenza”; “sapeva che poteva prendersi la peste, ma si avvicinava e toccava i malati, pur di aiutarli”; “l’ha uccisa l’amore”; “la sua carità infiammata di rispetto, e compassione, aperta e benevola verso tutti, senza alcuna preclusione, capace di vincere ogni ostacolo, rompere tutte le barriere, capace di sollevare e consolare nella tristezza”. La gente, perfino i non cristiani, ancora oggi dicono: “Quand’è che avremo di nuovo una suora come suor Irene?”».
L’esperienza missionaria di suor Irene Stefani funge da modello di vita cristiana, il suo apostolato è stato considerato eroico, il suo zelo per la missione straordinario. Ora agli onori degli altari. Quali grazie si possono chiedere e si è sicuri di ottenere per sua intercessione?
«A suor Irene stavano a cuore le famiglie. Ad Anfo, piccola adolescente, aiutava il padre nella trattoria per preparare le feste di nozze, e dava dei consigli agli sposi novelli. Durante il suo apostolato missionario in Kenya, la famiglia era la sua grande preoccupazione: le mamme in difficoltà per la maternità, le vedove, i piccoli a scuola, i giovani che partivano per Nairobi in cerca di lavoro, gli uomini senza lavoro. Visitava tutti per alleviare le loro necessità, per curare i malati, per catechizzare e preparare al sacramento del Battesimo. Adesso possiamo chiedere a Dio, per sua intercessione, di benedire e accompagnare tutte le famiglie che hanno difficoltà per avere un figlio, quelle che sono in difficoltà di rapporti, quelle che non hanno un lavoro, quelle che portano avanti la sofferenza della malattia incurabile. Per noi missionarie e missionari, affidarci a lei perché come lei possiamo essere uomini e donne coraggiosi, di grande zelo missionario, discepoli e missionari che vivono e portano il Vangelo con la gioia nel cuore e nelle labbra».
di Nicola Di Mauro
Nicola Di Mauro
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