Un racconto su chi racconta.
Presentato negli scorsi mesi in Italia in diversi festival cinematografici, tra cui il Festival di Internazionale a Ferrara, #Chicago Girl – The social network takes on a dictator, del regista statunitense Joe Piscatella, è un film documentario sulla Siria e la rivoluzione siriana.
Nel documentario, dalla sua stanza alla periferia di Chicago, una ragazza, la studentessa diciannovenne Ala’a Basatneh, figlia di esuli siriani, coordina, a partire dal 2011, attraverso Internet, la rivolta in Siria: tramite Facebook, Twitter e Skype aiuta i compagni sul campo a fronteggiare cecchini e bombardamenti e denuncia al mondo le atrocità commesse dal regime di Bashar al Assad.
Fino a prima della rivoluzione la vita di Ala’a era uguale a quella di qualunque altra ragazza della sua età: usciva con gli amici, andava al centro commerciale, studiava. Con lo scoppio della rivoluzione lei diventa uno dei nodi che uniscono centinaia, migliaia di cittadini siriani all’estero e in Siria contro la dittatura di Assad.
La speranza di Ala’ e dei suoi amici in Siria è che di fronte alle immagini delle atrocità commesse dal dittatore siriano il mondo non rimanga indifferente e intervenga per difendere il popolo siriano.
Quindi succede che qualcuno nella sua rete di contatti faccia un video con telefonini o telecamere Bluetooth, filmando quello che succede a Damasco, a Homs o in altre città, e lo carichi su YouTube e Ala’a, nella sua cameretta, scarica il video, oscura i volti delle persone, mette i sottotitoli in inglese, lo carica su YouTube, perché possa diventare virale, e lo invia alle televisioni e agli organi di stampa in tutto il mondo, perchè diventi “breaking news”. «Quando vedo i miei video nelle breaking news della Cnn e di Al Jazeera, sento che sto facendo la mia parte nel mondo», commenta Ala’a nel film.
I video e gli appelli lanciati da Ala’a sono grida di aiuto ai Paesi occidentali, alla Croce Rossa, alle Nazioni Unite, perché si mobilitino per la Siria, perché l’indignazione e le reazioni che ne scaturiscono non siano episodi di singoli, ma creino reali impegni e prese di posizione a livello globale.
Dopo che però fallisce il tentativo dell’ONU di adottare una posizione forte contro il governo siriano e porre fine alla guerra – il Consiglio di sicurezza adotta solo sei punti programmatici da fare rispettare che rimangono però completamente ignorati dal regime siriano – Ala’a e la sua rete cominciano a perdere fiducia nella rivoluzione e nei mezzi con cui la stanno portando avanti.
È a quel punto che il suo amico Aous decide di lasciare il suo telefono cellulare con cui aveva ripreso le atrocità della guerra fino a quel momento e prendere in mano un AK-47 e arruolarsi nell’esercito siriano libero, mentre Bassel, l’altro amico partito dagli Stati Uniti per andare ad aiutare la rivoluzione in Siria, decide di continuare con la sua macchina fotografica e di tornare a Homs a insegnare quello che ha imparato alla scuola di cinema di Syracuse ad aspiranti citizen journalists perché possano documentare violazioni di diritti umani e continuare a fornire prove per la fine della guerra. Bassel, a cui il film è dedicato, si sacrificherà per il proprio Paese e per la sua ricerca di prove contro il regime venendo ucciso da un colpo di mortaio proprio durante alcune riprese per le strade di Homs insieme ai suoi studenti. Di fronte alla morte di Bassel, Ala’a si sentirà totalmente impotente e anche per lei, non sarà più abbastanza partecipare attraverso internet e inizierà a organizzare dei viaggi per portare aiuti e medicine direttamente in Siria, insieme a suo padre.
Questo è, forse, il punto più importante del documentario, come riporta anche l’articolo di Sara Candioli per Internazionale: «I tanti ragazzi che hanno preso la telecamera e i cellulari in mano per filmare gli orrori del regime di Assad, avevano chiara l’idea di possedere un’arma formidabile», sapevano, o per lo meno speravano, che tutti i video girati per le strade di Homs e Damasco e pubblicati su YouTube avrebbero costituito la prova inconfutabile della colpevolezza del governo di Assad. Rimane la speranza che queste possano comunque servire come testimonianze in futuro e che nessuno possa più dire che “non sapeva”, ma il film lascia anche tanta amarezza per l’attuale situazione siriana e per i tanti giovani che, in Siria e all’estero, hanno cercato, senza le armi, ma con tutti gli altri mezzi che avevano a disposizione, di rendere il loro paese un posto migliore.
di Viviana Premazzi
Viviana Premazzi
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