In questo volume dedicato al buddhismo, religione che raccoglie e propone un’esperienza umana, si parla di:
– Una via di salvezza universale e razionale;
– La speciale posizione del buddhismo tra religione e filosofia;
– Il pensiero del Buddha in sintesi;
– L’importanza della meditazione;
– L’etica buddhista, in continuità e discontinuità con l’etica indù;
– Pratiche e motivazioni della nonviolenza;
– La "modernità" del buddhismo.
Inoltre, le fonti e i grandi patriarchi del buddhismo.
Presentate come vie di salvezza e di pace oppure come un atavico e violento inganno, le multiformi esperienze religiose hanno vinto la sfida della secolarizzazione e restano cruciali per capire il nostro tempo. "Fattore R" offre una guida agile e autorevole per penetrarne il senso e prospettarne il futuro.
Autore: Pasqualotto Giangiorgio
Filosofo, si è accostato al buddhismo interessandosi ai "rapporti tra la teoria e la pratica, cosa che non avevo trovato nella filosofia moderna e contemporanea e solo in parte nella filosofia antica". È autore di numerose opere.
anno: 2012
formato: 12×21
pagg. 160
euro 12,00
INDICE
L’originalità del buddhismo, 9
Quale Dio?, 15
L’insegnamento del Buddha, 24
Tecniche e pratiche, 59
L’etica buddhista, 74
Pace e guerra, 95
A confronto con il moderno, 117
Appendice
Le fonti, 137
I protagonisti, 145
Bibliografia, 155
PRESENTAZIONE
L’originalità del buddhismo consiste sostanzialmente in tre fatti:
1) è una religione universale in quanto via di salvezza dal dolore aperta a tutti, indipendentemente dalle differenze di etnia, genere, origine sociale e livello culturale;
2) tale via di salvezza si basa su analisi e proposte di tipo razionale, non fideistico;
3) tali analisi e proposte vanno costantemente verificate mediante la pratica della meditazione.
Ciò detto, sono necessarie tuttavia alcune precisazioni. È vero che il buddhismo si è presentato, fin dalla sua origine, come una via di salvezza dal dolore offerta a tutti, ed è quindi giusto considerarlo – alla pari dell’islam e del cristianesimo – una religione universale. Tuttavia è da ricordare che il Buddha non si è presentato al mondo come Dio, né come figlio di Dio, né come profeta, e che, di conseguenza, i cosiddetti "testi sacri" del buddhismo – in particolare il Canone in lingua pali – non contengono nessuna "parola di Dio", ma sono la trascrizione dei discorsi che un uomo eccezionale – il Buddha – fece durante i suoi quarantacinque anni di predicazione itinerante.
D’altra parte, se il buddhismo, fin dalla sua origine e in ogni sua fase storica e in ogni sua articolazione in diverse scuole e tendenze, ha riservato un ruolo centrale alla pratica meditativa, tale pratica si è sempre accompagnata a più o meno estese riflessioni speculative e a precise intenzioni etiche.
Uno degli esempi più chiari e importanti in base al quale si può misurare l’originalità del buddhismo è sicuramente rappresentato dal contenuto del discorso che il Buddha rivolse ai Kalama, un clan del villaggio di Kesaputta:
È giusto che voi abbiate dubbi e perplessità, perché sono dubbi relativi ad argomenti controversi. Ora, ascoltate, o Kalama, non fatevi guidare da dicerie, da tradizioni o dal sentito dire; non fatevi guidare dall’autorità dei testi religiosi, né solo dalla logica e dall’inferenza; né dalla considerazione delle apparenze; né dal piacere della speculazione; né dalla verosimiglianza; né dall’idea "questo è il nostro maestro". Ma, o Kalama, quando capite da soli che certe cose sono non salutari (akusala), sbagliate e cattive, allora abbandonatele (…) e quando capite da soli che certe cose sono salutari (kusala) e buone, allora accettatele e seguitele.
Appare singolare – almeno alla luce delle tradizioni religiose che hanno maggiormente determinato lo sviluppo delle culture occidentali – il fatto che il Buddha sconsigli di farsi guidare dall’autorità dei testi religiosi. In realtà ciò precisa chiaramente quale approccio debba tenere chi, duemilacinquecento anni fa come oggi, si accinga a leggere i testi raccolti nel Canone buddhista: costui non deve pensare che essi siano stati pronunciati da una o più divinità, ma deve assumerli come espressione di un’esperienza soltanto umana, per quanto vasta e profonda. Di conseguenza, ogni esegesi di tali testi deve esimersi dal credere che in essi sia raccolta tutta la verità e nient’altro che la verità: essi raccolgono invece le impressioni e le riflessioni di un individuo eccezionale che ha percorso una particolare via verso la verità, e che ha voluto far partecipi gli altri delle scoperte fatte lungo questo suo percorso. A questo proposito è interessante ricordare qual è l’atteggiamento che il Buddha consiglia di avere nei confronti della verità. Tale atteggiamento, assai diverso da quello prevalentemente coltivato da ogni tradizione propriamente religiosa, è messo in chiaro in un passo della raccolta di aforismi Sutta Nipata:
L’uomo il quale, fermo nelle sue opinioni, ritiene eccelso quel che egli stima di più al mondo, per la stessa ragione giudica volgari tutte le altre cose; perciò non supera le discussioni. Quello che egli trova pregevole nei dati dei sensi o in un codice morale o nel pensiero, a questo aggrappandosi ogni altra cosa considera vile. Gli esperti chiamano impedimento ciò che induce colui che vi si aggrappa a giudicare meschina ogni altra cosa; perciò il bhikkhu (monaco) non si fissi su ciò che vede, ode o pensa, o su un codice morale.
Ciò significa che sbagliato non è credere in una verità, ma ritenere che essa sia unica, assoluta ed eterna. È chiaro come, su queste premesse generali, l’insegnamento del Buddha e, poi, l’intero buddhismo, non abbia potuto costruire alcun sistema di dogmi e abbia potuto, per converso, entrare in contatto positivo con culture religiose e con tradizioni di pensiero profondamente diverse.
Nel discorso che il Buddha fece ai Kalama risulta inoltre particolarmente originale e significativo il passo in cui consiglia – anche qui in controtendenza rispetto a quasi tutte le altre tradizioni religiose – che è bene non farsi guidare dall’idea "questo è il nostro maestro". Tale consiglio, tuttavia, appare coerente con la natura "laica", non-sacrale, del Canone: non essendovi, per principio, una "parola di Dio" da comunicare e da commentare, non esiste nemmeno la legittimità di un gruppo o di un ceto speciale di sacerdoti dediti professionalmente a questi compiti. In tale prospettiva non è possibile parlare in senso appropriato di un clero buddhista, in quanto i monaci (bhikkhu) sono individui che seguono la via percorsa dal Buddha cercando di verificare in proprio le verità che egli sperimentò e formulò. Solo i più dotati tra i monaci possono considerarsi "maestri"; tuttavia, anche in questo caso, "maestro" è soltanto qualcuno che ha percorso prima dei suoi allievi – ma anche continua a percorrere, assieme a loro –, la strada verso la verità. Il tal senso, il maestro buddhista, più che un depositario della verità, dovrebbe essere una guida verso la verità: egli conosce alcuni passaggi pericolosi e alcune tecniche fondamentali per superarli, ma lascia che l’allievo proceda con le sue forze, senza proteggerlo troppo con qualche idea preconcetta sulla via e sulla meta; ma anche senza troppo spaventarlo con racconti terrificanti sulle difficoltà della via e sull’inaccessibilità della meta. In altri termini, per il buddhismo non si tratta di stare sotto la tutela di un "padre spirituale", quanto, piuttosto di stare in compagnia di "amici spirituali".
A questo punto, per misurare la forza e la chiarezza del carattere "illuminista", non-metafisico, che qualifica gli insegnamenti del Buddha, è fondamentale rifarsi al contenuto di un famoso testo del Canone pali in cui si rivelano alcune suggestive corrispondenze con le antinomie della Critica della ragion pura di Kant:
Perciò, Malunkyaputta, ciò che da me non è stato spiegato, tenetelo come non spiegato; e ciò che da me è stato spiegato tenetelo come spiegato. Ma che cosa, o Malunkyaputta, non ho spiegato? Che il mondo è eterno, ciò, Malunkyaputta, non ho spiegato; che il mondo non è eterno, ciò non ho spiegato; che il mondo ha fine, ciò non ho spiegato; che il mondo non ha fine, ciò non ho spiegato; che la vita e il corpo sono la stessa cosa, ciò non ho spiegato; che la vita e il corpo sono due cose diverse, ciò non ho spiegato; che il Tathagata esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato; che il Tathagata non esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato; che il Tathagata esiste e non esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato; che il Tathagata né esiste né non esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato.
È da notare in queste parole il chiaro intendimento del Buddha di limitare le pretese della ragione di dare spiegazione di questioni di cui non si può avere verifica empirica: egli, infatti, chiedendo "che cosa non ho spiegato?" e riferendosi alle questioni dell’infinità dell’universo, dell’immortalità dell’anima e dell’esistenza dell’Assoluto, intende riferirsi non a questioni di cui, genericamente, non si può parlare, ma a problemi che egli ritiene non si possano spiegare in modo certo e verificabile (avyakrita, indecidibili). La sua, insomma, non è una posizione che pretenda di essere assoluta, valida cioè per tutti e per tutte le forme di espressione, ma è limitata alle sue conclusioni e a quei discorsi che non presumono di poter dire qualcosa di definitivo su argomenti che non possono esser considerati oggetto di dimostrazioni razionali.
Le ragioni per preferire un simile atteggiamento "sperimentale" rispetto a quello di un’accettazione acritica di qualche verità assoluta sono ben illustrate nel paragone che a questo proposito il Buddha istituisce tra chi si ostina a cercare soluzioni a simili questioni metafisiche e un uomo che, ferito da una freccia, prima di essere curato, voglia sapere dal medico chi l’ha colpito, a quale famiglia e casta costui appartenga, quale sia la sua carnagione, la sua statura, il suo luogo di nascita e quale tipo di arco e di freccia abbia usato per colpirlo. È evidente che costui finirebbe per morire dissanguato prima di aver ricevuto risposta anche a una sola di queste domande. Così, chi si ostina a voler trovare risposta a domande metafisiche rischia di consumare la propria vita senza riuscire a togliersi o a farsi togliere quella "freccia" costituita dal problema del dolore. Infatti, alla fine del suo discorso a Malunkyaputta, il Buddha sostiene che, qualunque opinione si possa avere sui grandi problemi metafisici, esistono comunque la nascita, la vecchiaia, il decadimento e la morte, la sofferenza, il dolore, l’afflizione e l’angoscia, "la cessazione dei quali io proclamo in questa vita".
Il rifiuto da parte del Buddha di pronunciarsi in merito alle grandi questioni metafisiche non si conclude quindi con una posizione nichilistica, ma con la proposta di studiare il dolore al fine di poterlo debellare o, quantomeno, diminuire durante la vita concessa ad ognuno. Questa esortazione al lavoro dell’analisi razionale più che agli slanci dell’entusiasmo fideistico può essere ben sintetizzata con le parole ehi passika che indicano un invito a "venire a vedere", non a "venire a credere".
In questo libro si presenterà la comprensione buddhista della "natura delle cose" e il percorso di liberazione compiuto dal Buddha. Invece di soffermarsi sulla biografia di Siddhartha, già nota anche grazie a romanzi e film popolarissimi, si è preferito qui dedicare alcuni capitoli all’aspetto sociale del buddhismo e al suo ruolo nel mondo di oggi.
Nell’appendice sono presentate le fonti buddhiste: il lungo elenco è importante per dare l’idea delle dimensioni di tale letteratura, molto maggiori di quelle dei testi sacri delle religioni abramitiche. L’ultimo capitolo racconta le vite di alcuni grandi maestri, all’origine di varie correnti del buddhismo.
di EMI – Editrice Missionaria Italiana
emi.it
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