Nell’inno contenuto nella lettera ai Filippesi, Paolo attribuisce a Gesù Cristo i caratteri di Dio Padre. Non solo mediatore della lode cosmica verso il Padre, ma destinatario.
Ecco la terza di tre puntate sugli inni cristologici.
Mentre nella prima parte dell’inno della Lettera di Paolo ai Filippesi (2,5-11) il soggetto dell’azione era il Cristo, nella seconda parte invece è Dio: «Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!“ a gloria di Dio Padre».
Tutte le azioni del Padre sono dirette alla persona del Cristo. Egli viene esaltato perché è stato obbediente al Padre fino alla morte. Accettando di passare dal crogiolo della croce, il Cristo ha toccato il punto estremo del suo abbassamento umiliandosi senza riserva.
Umiliato ed esaltato
Un’attenta osservazione di tanta obbedienza del Figlio al Padre ci porta a notare il capovolgimento della logica umana compiuto dal Signore. L’umanità, infatti, mira al successo e alla gratificazione personale. Al contrario della logica di Dio che solo dall’umiliazione del Figlio fa sgorgare l’esaltazione.
Nel caso di Gesù il punto più alto coincide con quello più basso. Un effetto benefico e salvifico nasce proprio dalla morte.
A questo proposito viene alla memoria quello che Giovanni sottolinea nel suo Vangelo, quando afferma che il granello di senape produce il suo frutto solo se accetta di morire (cfr. Gv 12,24). La stessa logica si ritrova anche nel Vangelo di Matteo dove si legge: «Chi di voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato» (23,11-12).
Nell’inno il verbo che descrive l’esaltazione di Gesù è upsoó, che significa «super-esaltare», e cioè innalzare qualcuno verso una vetta più alta. Tale significato sottolinea la magnitudine dell’onore attribuito a Gesù dal Padre.
La preposizione «up» davanti al verbo esprime un’azione al massimo grado. Tale esaltazione colloca Cristo nel punto più alto e sopra ogni cosa. Egli diventerà, quindi, il Signore di tutto.
Il nome al di sopra
A una siffatta esaltazione segue un’altra importante azione da parte di Dio. Egli conferisce al Cristo «il nome che è al di sopra di ogni altro nome».
Questa seconda azione divina rinforza la prima.
Nella Scrittura il nome non è solo il mezzo attraverso cui noi distinguiamo un individuo da un altro, ma qualcosa che rivela la vera identità di una persona.
Quindi, parafrasando l’idea, si potrebbe affermare che Dio, non solo ha conferito a Gesù una qualifica che lo distingue dagli altri, un titolo che supera tutti gli altri titoli, ma gli ha anche conferito la natura che coincide con quel titolo.
Ora, se quel titolo (nome) è «Signore», significa che il Cristo ha ricevuto il carattere di Signore, egli è diventato, quindi, il Signore dell’intero cosmo. Questo segnala il punto di onore più alto raggiunto da Cristo dopo la sua umiliazione.
In ultima analisi Gesù riceve un’autorità universale che abbraccia cielo e terra, come lo stesso Risorto dice agli Undici in Galilea: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt 28,18). Il nome, conferitogli dal Padre, riguarda proprio questa suprema autorità sull’intero universo.
Signoria universale
Il versetto 11 ci informa che il nome conferito a Gesù è quello di «Signore», e questo rivela la signoria universale di cui egli gode dopo la risurrezione.
In parole più semplici si deve affermare che Gesù non solo può essere invocato come «Signore», ma lo è di fatto e in una dimensione cosmica.
Questa signoria del Signore Gesù deve generare una sentita reazione da parte di coloro che credono in lui. Siccome il Padre lo ha esaltato in modo superlativo, ogni ginocchio deve piegarsi di fronte a lui in cielo, sulla terra e sotto terra.
Ogni latitudine e ogni longitudine è convocata per prostrarsi di fronte alla sua grandezza e dignità.
Questo atto di adorazione di fronte alla divinità riconosciuta del Cristo deve essere accompagnato da una voce cosmica perché ogni lingua proclamerà che egli è Signore.
Il Nome a lui conferito è di una tale maestà che, quando esso risuona nell’etere, ogni ginocchio si deve piegare in cielo e sulla terra e sotto terra e ogni lingua deve proclamare finalmente che Gesù è il Signore di tutto.
L’inno ci offre l’immagine del Cristo totale. Si apre con la sua preesistenza dal momento che è nella forma di Dio, quindi passa all’incarnazione e infine all’esaltazione da parte di Dio.
All’apparire di Cristo, il cosmo intero deve sussultare, come suggerisce l’Apocalisse: «Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà. Anche quelli che lo trafissero. E per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto» (1,7).
Lo stesso tributo verrà rivolto sia a Dio che al Cristo quale agnello di Dio: «A colui che siede sul trono e all’Agnello, lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli» (Ap 5,13).
L’ovazione deve, di necessità, essere di dimensioni cosmiche. Nessuna realtà deve rimanere fuori, ma deve parteciparvi attivamente. Il motivo è eminentemente teologico, perché ogni cosa è venuta all’esistenza per lui, con lui e per mezzo di lui (cfr. Gv 1,1-3).
Va notato che il nome verso cui è diretta l’ovazione cosmica è quello di Gesù per una scelta propria dell’autore dell’inno.
Egli vuole affermare, senza ombra di dubbio, che l’autorità suprema su tutto il cosmo è stata posta nelle mani della persona storica di Gesù, vissuto a Nazaret, conosciuto come il figlio di Maria. È esattamente quel Gesù che svuotò sé stesso, si incarnò, si umiliò, accettò la forma di servo, morì sul legno come un criminale, che Dio costituì «Signore e Cristo» (Atti 2,36).
Io sono colui che sono
Molti discutono se in questo inno Gesù giochi il ruolo di mediatore per l’atto di adorazione cosmica da rivolgere a Dio.
A noi sembra che tutto il contesto non favorisca questa interpretazione: Gesù ha già ricevuto il nome di «Signore», che è al di sopra di ogni altro nome. Dalla versione greca dell’Antico Testamento, il titolo «Signore» è usato per tradurre il nome di Dio in Es 3,14: «Io sono colui che sono». Inoltre va tenuto conto che qui Paolo usa la terminologia di Is 45,23: «Davanti a me si piegherà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua». Nell’inno questi atti sono applicati a Gesù (cfr. vv 10-11).
Di qui si può concludere che l’autore asserisce che Dio ha trasferito il diritto di adorazione a Gesù. Quello che Isaia attribuiva a Dio, l’inno lo attribuisce a Gesù. L’ovazione cosmica è indirizzata direttamente a Lui, e non per mezzo di lui al Padre. Quando nell’etere risuona il nome «Gesù», tutta la creazione deve proclamare che egli è «Signore» dell’universo (cfr. Rm 10,9; 1Cor 12,3).
A gloria di Dio Padre
L’inno si chiude con una breve dossologia: «A gloria di Dio Padre». La glorificazione di Dio Padre è la finalità ultima di tutto l’evento salvifico, che è stato progettato dal Padre e portato a compimento dall’obbedienza di Cristo. Va da sé che la sua umiliazione così come la sua esaltazione hanno l’intento di glorificare il Padre.
La stessa ovazione cosmica tributata a Gesù deve essere condotta «a gloria di Dio Padre».
di Antonio Magnante
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