Produzione ed esportazione delle armi, riconversione, educazione alla pace.
Diviene inevitabile, e non solo nel nostro paese, prendere coscienza delle ampie e pervasive dimensioni della "questione delle armi". Gli avvenimenti recenti – soprattutto i "bombardamenti chirurgici" sulla Libia – impongono nuove analisi, in particolare sul nesso causale tra migrazioni e conflitti.
Autore: AA.VV.
Il volume è curato da OPAL – Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa, associazione onlus promossa da diverse realtà dell’associazionismo bresciano e da singoli cittadini per diffondere la cultura della pace e offrire alla società civile informazioni di carattere scientifico circa la produzione e il commercio delle armi e approfondimenti sull’attività legislativa del settore.
Contenuti:
L’intento di OPAL è quello di offrire materiali di riflessione a chi vuole operare nell’ambito della nonviolenza, e strumenti anche informativi per divulgarne i principi.
Nelle pagine dell’Annuario, il lettore può trovare l’analisi dei rapporti dell’UE sulle esportazioni di armi dei paesi europei, da cui risulta il ruolo di Francia, Gran Bretagna, Germania e – in prima fila – dell’Italia nella ripresa di una "corsa agli armamenti" che riempie gli arsenali proprio di quei paesi indicati come base di partenza di "ondate migratorie epocali", e dove spesso i diritti umani vengono violati.
Per riportare i temi della cultura nonviolenta al centro del discorso pubblico proponiamo riflesisoni sul linguaggio della pace, sulle vicende della resistenza birmana attorno alla figura carismatica di Aung San Suu Kyi, sull’esperimento di una "riconversione possibile" tentato nel secondo dopoguerra nello stabilimento Breda di Brescia.
Alle questioni dell’informazione sono poi dedicate la denuncia delle carenze e distorsioni nel dibattito circa i possibili effetti sulla salute delle munizioni all’"uranio impoverito", e uno sguardo sulle insofferenze del mondo della caccia in Italia, sempre più legato alla lobby dell’industria armiera.
anno: 2011
formato: 17×24
pagg. 176
euro 13,00
INDICE
Introduzione, 7
Le armi della caccia
di Carlo Tombola, 13
Le esportazioni di armamenti dell’Unione Europea
di Giorgio Beretta, 21
Il dibattito pubblico sulle munizioni all’uranio impoverito: salute, politica, media
di Carlo Tombola, 53
Il lessico della pace
di Manuela Fabbro, 71
La Birmania e Aung San Suu Kyi
di Mimmo Cortese, 93
Dalla mitragliatrice al telaio. La VI Sezione bresciana della Società Ernesto Breda 1945-1951:
storia di una riconversione mancata
di Roberto Cucchini, 113
Recensioni
di Carlo Tombola, 167
PRESENTAZIONE
Diviene sempre più urgente, e non solo nel nostro paese, prendere coscienza che le dimensioni della "questione delle armi" sono molto grandi e che si tratta di una questione pervasiva di ogni sfera economica e culturale.
È per questa ragione che il quarto Annuario di OPAL contiene contributi di conoscenza e analisi su diversi aspetti, dall’esportazione di armamenti dell’Unione Europea agli interessi che sostengono la caccia sportiva; dal dibattito sui possibili danni delle munizioni contenenti uranio impoverito alla figura di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace 1991; dalle parole che contraddistinguono la "cultura della pace" ai tentativi di riconversione alle produzione civili in un grande stabilimento bresciano del dopoguerra.
L’intento dichiarato è quello di offrire materiali di riflessione a chi voglia operare nell’ambito della nonviolenza, e strumenti informativi per divulgarne i principi. È un ruolo che OPAL cerca di svolgere a partire dall’ambito locale in cui opera, ma anche aprendo verso altri temi, verso altri luoghi in cui la pace è in pericolo.
Come dà conto il nostro sito (www.opalbrescia.it), quello dell’Annuario non è il solo contributo alla causa della pace e del disarmo. OPAL ha sostenuto la rappresentazione di alcuni spettacoli teatrali – Bim, Bum, Bang! di Elena Vanni, e l’opera multimediale Prima che cadano le foglie – e, per il secondo anno consecutivo, una rassegna cinematografica, questa volta dedicata al tema "Migrazioni forzate e conflitti. Storie di persone e di armi".
Proviamo a vedere la "questione delle armi" da questa diversa prospettiva, cioè dal nesso causale migrazioni-conflitti, anche sotto la spinta dell’attualità e dei "venti di guerra" che soffiano sulla sponda meridionale del Mediterraneo.
Non c’è dubbio che il nostro paese si trovi ormai coinvolto, sul territorio libico, in un’altra guerra dall’esito alquanto incerto. Tuttavia la questione non può essere confinata – come non poteva esserlo neppure per l’intervento in Afghanistan e in Iraq – entro lo schema della "guerra umanitaria" e dell’"esportazione della democrazia". Il governo italiano ha deciso di appoggiare l’operazione Odyssey Dawn per un insieme di ragioni tra loro collegate: per la competizione con Francia e Gran Bretagna nell’accaparramento delle forniture energetiche libiche; per restare nel gioco militar-diplomatico di Sarkozy e Cameron, che hanno in tutta evidenza forzato la mano agli alleati; per rimediare a uno squalificatissimo trattato italo-libico firmato a Bengasi nell’agosto 2008.
Al centro di quel trattato c’era l’"emergenza emigrazione", ovvero la delega al regime di Gheddafi del controllo preventivo (e repressivo) sulle correnti migratorie provenienti dal Nordafrica e dirette alle isole Pelagie e alla Sicilia, in cambio di cinque miliardi di dollari in vent’anni in infrastrutture, e il comodato d’uso di sei motovedette per il pattugliamento marittimo. In più – si legge nel trattato – Italia e Libia "promuoveranno la realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche, da affidare a società italiane in possesso delle competenze tecnologiche necessarie. L’Italia si è impegnata a sostenere il 50 per cento dei costi di realizzazione di tale sistema, mentre per il restante 50 per cento Italia e Libia chiederanno all’Unione Europea di farsene carico".
Un capitolo a parte riguardava la collaborazione italo-libica nel settore della difesa, "prevedendo la finalizzazione di specifici accordi relativi allo scambio di missioni tecniche e di informazioni militari, nonché lo svolgimento di manovre congiunte. Le Parti si impegnano, altresì, ad agevolare la realizzazione di un forte e ampio partenariato industriale nel settore della difesa e delle industrie militari".
In che cosa si è tradotto questo punto del trattato? Innanzi tutto in una forte progressione delle commesse militari italiane, passate da 15 milioni di euro nel 2006 a 112 milioni nel 2009, che ha portato il nostro paese ad essere il primo fornitore europeo di armi al regime di Gheddafi nell’ultimo biennio, davanti alla Francia.
Queste commesse sono in gran parte riconducibili ad aziende del gruppo Finmeccanica: elicotteri militari Agusta Westland, pattugliatori aerei di Alenia Aeronautica, aerei per addestramento di Alenia Aermacchi, sistemi missilistici della Mbda ecc. Come evidente conseguenza di questi acquisti, il fondo sovrano libico Libyan Investment Authority (Lia), direttamente controllato dal governo di Tripoli, è divenuto recentemente (21 gennaio 2011) il secondo azionista della stessa Finmeccanica con il 2,01% del capitale (il primo azionista è il Ministero dell’economia): i libici così partecipano ai profitti generati dai loro acquisti governativi, gli italiani "fidelizzano" il loro miglior cliente facendogli posto nella compagine sociale.
Effetti di ampia risonanza si sono registrati anche in seguito all’ingresso – nell’ottobre 2008, poche settimane dopo la firma del trattato – della Banca Centrale di Libia nel capitale di Unicredit, con una quota salita fino al 4,988%, cioè appena sotto la soglia del 5% sottoposta a verifica della Consob. In rappresentanza del secondo azionista del gruppo, il governatore della Bcl ha ottenuto la poltrona di vicepresidente di uno dei primi quindici gruppi bancari al mondo. Il rastrellamento sul mercato di un ulteriore 2,594% del capitale di Unicredit da parte della Lia ha appena mascherato la scalata dei libici al di sopra del 7%, scalzando Mediobanca dal ruolo di maggiore azionista e indirettamente causando le dimissioni di Alessandro Profumo, per dodici anni amministratore delegato del gruppo.
Non appare azzardato collegare il ruolo degli investimenti di Gheddafi in Unicredit con il drastico cambiamento della policy del gruppo bancario rispetto al commercio di armamenti. Infatti, nel gennaio 2008 Unicredit annunciava un rafforzamento in senso restrittivo di tale politica, poi adottata l’anno successivo ma non resa pubblica; tuttavia dopo le dimissioni di Profumo questo tanto annunciato quanto procrastinato rafforzamento si è ridotto a una semplice e debole "dichiarazione", pubblicata il 21 dicembre 2010 sul sito di Unicredit.
Aggiungiamo che i fondi sovrani libici sono tornati a investire in Fiat (circa il 2% del capitale dal 2000), e che nel 2009 il Libyan Foreign Investment Company (Lafico) ha portato la sua partecipazione in Juventus Football Club Spa al 7,5%. Inoltre Lia possiede l’1% di Eni e ha affidato 500 milioni di dollari a Mediobanca per investire in aziende italiane in difficoltà.
Soldi, grandi affari, consigli di amministrazione. Si valutano tra i 60 e gli 80 miliardi di dollari gli investimenti di Gheddafi nel mondo, e non si può escludere che la destinazione di questo "tesoro" – oggi congelato dall’Onu solo per la parte direttamente riferibile a Gheddafi e al suo entourage – sia un punto rilevante delle trattative tra i paesi della coalizione e i cosiddetti "ribelli". I comitati di affari sono già insediati, e si può star certi che – sulla base dell’esperienza della "guerra umanitaria" – le operazioni militari in Libia non saranno rapide, e termineranno solo quando saranno assicurati i nuovi assetti petroliferi e finanziari.
Democrazia, libertà, diritti umani non sono le ragioni che muovono gli eserciti delle potenze mondiali, anche se certo quelle sono le parole gridate nelle piazze arabe in queste settimane i cui echi sono arrivati anche sui nostri schermi televisivi.
Ma dietro le proteste di tutti i paesi della sponda mediterranea meridionale c’è una richiesta ormai quasi impronunciabile (lavoro) e una reazione all’irrigidimento delle politiche migratorie europee: la "fortezza Europa" ha infatti alzato muri diplomatici e di polizia, Bruxelles non ha ammesso la Turchia nell’Unione, Grecia e Spagna impiegano la forza nei respingimenti degli immigrati, l’Italia si è affidata alla gestione "preventiva" di Gheddafi spostando il problema addirittura alle frontiere libiche, come prevedeva il trattato del 2008, e per chi giunge in Europa clandestinamente si aprono le porte di carceri improvvisati quanto disumani.
Partiti xenofobi raccolgono successi, dall’Olanda alla Finlandia, dall’Italia (dove la Lega è al governo) all’Ungheria.
Come risulta chiaro dalle vicende tunisine e libiche, un’Unione Europea che i governi conservatori vogliono debole e meno politica non ha iniziativa, e viene di fatto scavalcata da accordi bilaterali. In nome di un euroscetticismo identitario, i governi nazionali creano il problema (la mancanza di visione e di soluzioni unitarie), per poi candidarsi a risolverlo di fronte ai propri elettori.
È chiaro tuttavia che nell’area mediterranea non ci troviamo di fronte a un’emergenza bensì in presenza di un cambiamento radicale nell’equilibrio tra lavoro e forza lavoro, tra distribuzione della ricchezza e demografia, questioni che richiederebbero strategia di lungo periodo e visione solidale, intensificazione dell’interscambio economico e culturale e la costruzione di uno spazio pacifico e smilitarizzato: proprio ciò che la guerra impedisce di realizzare.
Si pensi che i cinque paesi posti sulla linea Gibilterra-Suez (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto) hanno oggi una popolazione di 160 milioni di abitanti, e che i sette paesi mediterranei dell’UE (Francia, Italia, Spagna, Grecia, Slovenia, Cipro, Malta), pur non arrivando a 190 milioni di abitanti, producono una ricchezza dieci volte maggiore. Paesi ricchi ma invecchiati, in cui un quarto della popolazione ha più di 60 anni, una situazione comune del resto anche a quasi tutta l’Europa non latina, dove da tempo si sono aperti ampi varchi alla manodopera straniera.
I dati segnalano anche che il maggior deficit demografico continentale è proprio quello dell’Italia, che registra da decenni il record mondiale della denatalità, tanto che proprio nei giorni dell’"emergenza" degli immigrati tunisini il ministro italiano del lavoro ha reso pubblico il fabbisogno di lavoratori stranieri previsto per i prossimi dieci anni: 2 milioni di persone, 200.000 all’anno in media.
In questo stesso arco decennale la pressione demografica sull’Europa invecchiata crescerà ancora, poiché già oggi ben un terzo degli abitanti della sponda nordafricana ha meno di quindici anni. I respingimenti e le difficoltà di movimento dei giovani arabi scolarizzati e disoccupati hanno certo contribuito a farne la forza d’urto popolare capace di spazzar via in pochi giorni dittature utili alla stabilità dell’Occidente, ma la generazione successiva è già nata ed è ancor più numerosa.
Per quanto tempo si potrà impedire che giovani disoccupati, che teoricamente hanno a disposizione meno di 2.300 dollari all’anno, possano andare a cercare lavoro in paesi che distano poche ore di traghetto, dove in media ogni abitante dispone di quasi 19.000 dollari e dove c’è un’effettiva richiesta di lavoro a buon mercato?
La militarizzazione e la "tolleranza zero" sono le uniche strade proposte dal ceto politico degli stati nazionali d’Europa, ma è facile prevedere che non basteranno a cancellare quello che rimane pur sempre uno dei diritti umani fondamentali, la libertà di movimento, resa universale dall’effettiva realizzazione di un mondo globale. Altrove, nelle scuole, nelle fabbriche, nelle famiglie, in Italia come in Francia e in Germania, l’integrazione si è già avviata ma è chiaro che ciò prefigura uno scenario in cui quel ceto politico si dimostrerà superfluo.
La militarizzazione del Mediterraneo è dunque già in atto? Sì, e non certo da oggi. Vi hanno partecipato tutti i maggiori governi europei, sotto la guida degli Stati Uniti, collezionando effetti disastrosi che hanno toccato i massimi livelli di allarme con le quattro guerre arabo-israeliane, la crisi di Suez, l’invasione di Cipro, la guerra civile in Libano, le guerre jugoslave e nel Kosovo e, solo apparentemente ai margini geografici, la tragedia cecena, le guerre caucasiche (ultima quella russo-georgiana del 2008) e il conflitto mai sopito tra Eritrea ed Etiopia. Tutte le crisi militari hanno dato origine a movimenti, talvolta rilevanti, di rifugiati, ingrossati di continuo dalle crisi umanitarie causate da altri conflitti, nell’Africa sub-sahariana e nel Medioriente.
La responsabilità maggiore ricade sui governi occidentali. Per decenni hanno armato regimi che praticavano la repressione violenta degli oppositori interni, senza alcun rispetto dei diritti umani e della libertà di espressione, regimi tanto corrotti quanto rispettati dalle cancellerie d’Europa e d’America, che se ne sono anche servite per praticare la tortura su commissione.
Il colonnello Gheddafi, amico personale del presidente del Consiglio italiano in carica, ha usufruito di rifornimenti militari fino all’ultimo momento possibile, e anzi il governo italiano non li ha mai ufficialmente bloccati prima della risoluzione Onu. Nel novembre 2009 – due mesi dopo la coreografica visita di Gheddafi a Roma – ha persino coperto la vendita di 11.500 tra pistole, carabine semiautomatiche e fucili a presa di gas della Beretta di Gardone VT, presieduta da quell’Ugo Gussalli anch’egli tra gli amici personali del capo del governo italiano.
Quelle armi sono state classificate come "civili" anche se destinate alla polizia di Gheddafi, e nonostante fossero identiche a quelle adottate dalle forze armate di molti paesi, Stati Uniti compresi. La Beretta, d’accordo con le autorità italiane, non ha quindi seguito la sequenza burocratica (richiesta di autorizzazione all’export, concessione dell’autorizzazione, registrazione nella Relazione ex lege 185/1990) che avrebbe reso pubblica l’operazione e che avrebbe anche rispettato la normativa europea; invece ha richiesto autorizzazione al Ministero degli interni, Dipartimento di polizia amministrativa e sociale tramite la Prefettura di Brescia (per le pistole e le carabine) e alla Questura di Brescia con parere favorevole del Ministero degli interni (per i fucili). Di conseguenza è stata oscurata anche la sottostante operazione finanziaria, curata dalla Gumhouria Bank e dalla sua corrispondente italiana, la Ubae, controllata dalla Libyan Foreign Bank ma con partecipazioni rilevanti di Unicredit, Eni, Telecom e indirettamente Monte dei Paschi di Siena.
Tutta l’operazione è invece divenuta di pubblico dominio a causa di un errore delle autorità doganali maltesi, che hanno statisticamente attribuito a Malta 79 milioni di euro di armi fornite alla Libia nel 2009. Come hanno stabilito le inchieste di alcuni giornalisti freelance inglesi, belgi, maltesi e italiani, in realtà si trattava di ben tre "errori": le armi non erano maltesi ma italiane, non si trattava di 79 milioni di euro ma di 7,9 le dogane maltesi non avrebbero dovuto compiere alcuna registrazione perché non vi è stato passaggio sul territorio maltese.
La smentita proveniente dalla direzione della Beretta (è "priva di qualunque fondamento la notizia relativa ad una presunta fornitura di 79 milioni di euro di armi da parte dell’azienda al governo libico tramite Malta") non smentiva le forniture al governo libico, né smentiva altre forniture eventualmente avvenute senza passare da Malta, né che il loro importo potesse essere diverso da 79 milioni di euro.
Nello stesso comunicato la multinazionale di Gardone VT ribadiva "di operare nel pieno rispetto dei regolamenti, normative e procedure che regolano la commercializzazione di armi a livello mondiale".
Come abbiamo visto, ciò che è vero nella forma non è detto lo sia anche nella sostanza. La Beretta e le autorità italiane – a Brescia e a Roma – non hanno rispettato la legge 185 sulle esportazioni militari, né il governo italiano ha rispettato la Posizione Comune dell’Unione Europea sulle esportazioni di armamenti, che chiede prima di ogni esportazione di armi di accertare il "rispetto dei diritti umani nel paese di destinazione finale", il "rispetto del diritto internazionale umanitario da parte di detto paese" e di rifiutare le esportazione di armi "qualora esista un rischio evidente che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possano essere utilizzate a fini di repressione interna".
Come OPAL e Rete italiana disarmo, abbiamo chiesto alla Beretta di Gardone, al questore e al prefetto di Brescia, ai ministri italiani degli esteri e dell’interno se questi accertamenti siano stati compiuti e quale esito abbiano avuto. Non abbiamo ricevuto risposte, per cui giriamo la questione, oltre che ai nostri lettori, ai cittadini libici e a tutti i migranti passati negli ultimi anni dai lager di Gheddafi.
EMI Editrice Missionaria Italiana
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