Padre Matteo Pettinari, marchigiano di 36 anni, in Costa d’Avorio dal 2007, ci racconta la storia (e il senso) della sua risposta alla chiamata
missionaria.
«Mi chiamo Matteo Pettinari, ho 36 anni, sono nato a Chiaravalle (Ancona), nelle Marche. I miei genitori, Pietro e Roberta, hanno fatto un’intensa esperienza missionaria di più di due mesi in Costa d’Avorio, nella Delegazione in cui lavoro io. I miei fratelli, più grandi di me, si chiamano Marco e Francesca. Sono zio di cinque meravigliosi nipotini tra gli 11 anni e i sette mesi. La mia diocesi di origine è Senigallia».
Perché hai deciso di diventare missionario e, soprattutto, perché della Consolata?
«Guarda, perché sono diventato missionario, e missionario della Consolata, è una domanda da porre a Dio più che a me! “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15,16) diceva un giorno quel Galileo, chiamato Gesù, seguendo il quale Matteo si è ritrovato a essere ciò che è oggi. Davvero, il mistero di una vocazione – ed ora ti parlo della mia vocazione missionaria – è racchiuso più nel silenzio di uno sguardo che ama e di una Parola che chiama che nel dilungarsi di tante spiegazioni… (cf. Mt 9,9)».
Puoi raccontare la tua storia missionaria?
«Il mio cammino vocazionale è iniziato in una tregiorni organizzata dal seminario della mia diocesi di Senigallia dal 6 all’8 dicembre del 1998, quando avevo 17 anni. Tre giorni intorno alla Parola animati da p. Giovanni Dutto, missionario della Consolata, dal titolo “Signore, cosa vuoi che io faccia?”. Lì sono stato afferrato dalla Parola di Dio – una Parola che riempiva di senso e di gioia la mia vita – e dal desiderio di viverla e di condividerla con tutti, a partire dagli ultimi. In seguito, il cammino è proseguito prima nel seminario minore della mia diocesi e, poi, nel seminario regionale di Ancona dove ho portato a termine gli studi di filosofia e di teologia. Camminando, il Signore mi ha mostrato con chiarezza sempre maggiore che soltanto essere consacrato da Lui per la missione ad gentes, per tutta la vita, in culture e popoli altri e in mezzo ai poveri dava forma e concretezza a ciò che Lui desiderava per me. E così sono entrato nella famiglia dei missionari della Consolata e, terminato il noviziato a Bedizzole con la prima professione il 27 agosto 2006, sono partito nel gennaio 2007 per la Costa d’Avorio. Dal 2009 al 2011 sono stato mandato a Madrid per approfondire gli studi di teologia biblica. Nel frattempo, il 28 febbraio 2010, sono stato ordinato diacono a Madrid e, l’11 settembre dello stesso anno, presbitero nella cattedrale della mia diocesi di Senigallia. Dal mese di novembre del 2011 sono di nuovo in Costa d’Avorio dove, dal 17 dicembre 2011, vivo e lavoro a Dianra, nel Nord del paese, diocesi di Odienné».
Puoi dire due parole sulla Costa d’Avorio? Quali sono le sue sfide missionarie principali?
«La Costa d’Avorio è uno stupendo fazzoletto di paradiso terrestre, situato nell’Africa Occidentale, che si affaccia sull’Atlantico. Purtroppo noi uomini abbiamo provato, e ci siamo quasi riusciti, a trasformarlo in una terra sfigurata dalla deforestazione (è il paese con uno dei tassi più alti di distruzione della foresta tropicale, che negli ultimi decenni è scomparsa dell’80%), dalla guerra civile (dal 2002 al 2011, dopo una serie di colpi di stato a partire dalla fine degli anni Novanta) e da diversi tipi di squilibri e disuguaglianze socio-economiche che ne minano la stabilità e la rendono attualmente un paese emergente ma estremamente fragile. Inoltre, la crisi postelettorale del 2011, con le violenze interetniche che ne sono seguite, ha creato sacche di odio profondo e il cammino della riconciliazione non è stato mai intrapreso con serietà. Il timore è un riesplodere della violenza cieca e del regolamento di conti non appena una situazione di instabilità si riaffacci all’orizzonte. Il contatto con le persone svela un risentimento diffuso, più o meno giustificato, che cova sotto le ceneri degli sconfitti dell’ancien régime del presidente Laurent Gbagbo, attualmente alla Corte penale internazionale. Questo semplice e superficiale sguardo al paese ne svela già le sfide missionarie: impegno per la nascita di comunità in cui la diversità è riconciliata dalla Parola, testimonianza di fraternità multiculturale e interreligiosa, sensibilità per il creato, attenzione privilegiata a coloro che più pagano le conseguenze di crisi e guerra civile…».
Che lavoro stai svolgendo oggi? Quali sono la difficoltà e la soddisfazione più grandi?
«Attualmente, a Dianra, vivo con altri due missionari della Consolata: padre Manolo, spagnolo, classe 1951, e padre Raphael, keniano, classe 1984. A me piace sottolineare che il nostro primo lavoro è testimoniare la bellezza del nostro essere fraternità di persone molto diverse che assumono insieme una missione comune, entusiasmante e ricca di sfumature. La tensione creativa della nostra comunità genera stupore: accompagnamento di piccole comunità cristiane sparse in un territorio immenso (3.009 km2), cammini di formazione per catechisti e leader delle nostre comunità, impegno condiviso nel mondo della sanità e dell’educazione, progetti di consolazione e promozione umana come il microcredito e l’apicoltura, evangelizzazione tra i non cristiani, amicizia interreligiosa con i fratelli mussulmani, approfondimento teologico-liturgico nella costruzione di una chiesa che sia annuncio del Vangelo per la nostra gente e tanto ancora. Personalmente, tra l’altro, sono il parroco di una delle due parrocchie che ci sono affidate e l’amministratore di un centro sanitario. Le difficoltà più grandi così come le più belle gioie si nascondono sempre nelle relazioni con le persone che amo e da cui sono amato».
Ci racconti un episodio della tua vita missionaria?
«Settimana Santa del 2013, sera del martedì. Due giovani ragazze mi chiamano quando già sto per andare a dormire. Un bambino di meno di 48 ore sta morendo in casa perché alla maternità, la notte del parto, è stato fatto cadere e ha sbattuto la testa, ma nessuno ha detto niente alla mamma né all’ostetrica. Arrivo e il bimbo se ne è appena andato… o forse non ancora. Lo battezzo come posso. E poi lo lavo, e lo profumo e lo rivesto, prima che partano per la sepoltura mentre resto ad asciugare le lacrime della giovanissima madre. Era il suo primo parto. Ho chiamato il bambino Pasquale. E gli ho promesso che mi sarei impegnato a non tacere davanti a simili ingiustizie che mai saranno denunciate e per le quali non restava che piangere. Perché la ricchezza dei poveri, spesso, sono solo le lacrime… A non tacere attraverso l’impegno della mia vita donata per loro, per essere voce di chi non ce l’ha».
Quali sono le grandi sfide della missione del futuro? In concreto, come pensi di affrontarle nel tuo ambiente, con la gente con cui lavori?
«Credo che tutte le sfide si possono riassumere in una: essere Vangelo, essere Parola, aderenti al contesto in cui si vive. E mi spiego. Le sfide sono diverse e molteplici quanto i luoghi e i contesti della missione. A ogni missionario, a ogni comunità, spetta il compito di incarnare la Parola, il Vangelo, là dove è. Quel che vorrei dire è che le sfide dell’oggi vanno accolte senza riserve e, allo stesso tempo, senza dimenticare che l’ordine del giorno della missione – se non vogliamo lasciarci schiacciare dalla globalizzazione e perderci nell’insignificanza della Babele delle religioni – ci viene dal Vangelo di Gesù di Nazareth. Un Vangelo di vita da condividere con tutti. Nel mio ambiente e tra la mia gente, la missione assume anzitutto lo stile del dialogo, dell’amicizia e della semplicità: noi cattolici non siamo neanche il 2% della popolazione in un contesto prevalentemente mussulmano e fortemente marcato dalla religione tradizionale. Un dialogo che si fa vicinanza alla vita delle persone, accompagnamento delle loro storie, condivisione della loro situazione e impegno per la loro promozione, secondo le nostre possibilità e i cammini che si aprono avanzando insieme».
Che cosa possiamo offrire al mondo come Missionari della Consolata? Quali sono le ricchezze che possiamo condividere?
«Secondo me, una delle ricchezze più grandi che possiamo offrire al mondo oggi come missionari della Consolata è la nostra fraternità interculturale. Se penso a Dianra, questo dono si traduce nella fatica feconda di un quotidiano dove cerchiamo di volerci bene senza ipocrisie e facendoci carico gli uni dei pesi degli altri, in un cammino nel quale la diversità, trasfigurata da un amore concreto, si fa ricchezza e trasparenza di un Amore più grande. Che è poi il motore della nostra vita, il senso della nostra missione, il respiro della nostra donazione».
Che cosa dovremmo fare, secondo te, per avere più impatto nel mondo giovanile?
«Semplicemente essere radicalmente noi stessi! Andando fino in fondo nel vivere il nostro sì a Dio per la missione ad gentes! Io credo profondamente che la nostra vita e vocazione racchiudano una bellezza e un potenziale di attrazione enorme nei confronti del cuore dei giovani… Manifestiamo questa bellezza vivendo con radicalità, entusiasmo e passione ciò che siamo!».
Puoi suggerirci uno slogan da proporre ai giovani che si avvicinano ai nostri centri missionari? Che frase, slogan, citazione proporresti, e perché?
«La citazione è Matteo 9,9: “Passando vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse : ‘Seguimi’. Ed egli si alzò e lo seguì”. Gesù non ha mai chiesto di credere in lui. Ha solo chiesto di seguirlo… E da una vita seduta, fatta di calcoli, ci si ritrova in piedi, in cammino, sedotti da uno sguardo innamorato e da una proposta tutta da scoprire, che si fa strada… Ci stai?».
di Luca Lorusso
Video: sul canale youtube La Voce Misena / Radio Duomo – Diocesi Senigallia puoi visionare il video della testimonianza di padre Matteo.
Leggilo, scaricalo, stampalo da MC marzo 2018 sfogliabile.
Luca Lorusso
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