Padre Ernesto Viscardi, Missionario della Consolata, nato a Villa d’Almè (Bg) nel 1951, è stato ordinato nel 1978.
È partito nel ‘79 per Doruma, missione poverissima nell’estremo Nord dello Zaire (oggi Congo Rd). Dopo 11 anni è tornato in Italia come animatore missionario.
Nel 2004 è partito per la giovanissima Chiesa mongola, dove ha lavorato fino al 2024.
Oggi è a Roma in aiuto all’Istituto per la formazione dei nuovi missionari.
«A l mio paese c’è una tradizione di sacerdoti (con tre vescovi: Sigismondi, Quadri e Martinelli), di missionari della Consolata (tre fratelli coadiutori: Battista Locatelli, Ernesto Viscardi, Riccardo Codazzi; mio fratello padre Mario e, dopo di me, padre Fiorenzo Seveso e padre Enzo Viscardi) e altri di vari istituti.
Soprattutto i fratelli Imc mi avevano impressionato per i loro avventurosi racconti, lo stile di grande laboriosità – hanno costruito chiese, ospedali, scuole, missioni e conventi – e per la loro estrema semplicità di vita. La strada era già tracciata, bastava prenderla e camminarci sopra. Niente di più semplice».
Ci racconti la tua storia missionaria?
«Ho frequentato le medie e il ginnasio a Bevera (Lc), il liceo a Varallo Sesia (Vc), il noviziato alla Certosa di Pesio (Cn). Ho fatto la prima professione nel 1972. Poi ho studiato teologia al Missionary institute London (Mil).
Ordinato a Bergamo il 17 giugno 1978, l’anno dopo sono partito per la mia prima destinazione e “primo amore”: Doruma, una missione isolata in stile tradizionale all’estremo Nord dello Zaire (l’attuale Congo Rd). No elettricità, no telefoni, solo bici e moto per visitare i 60 villaggi. Notti in capanna: lo stile di missione che avevo sognato.
Poi sono stato 4 anni a Kinshasa dove ci siamo tuffati nella grande riflessione sul tema dell’inculturazione, la liturgia africana, le comunità di base, la formazione dei laici. Infine, sono tornato a Doruma fino 1990.
Richiamato in Italia, per dodici anni ho lavorato nell’animazione missionaria a Sassuolo, Bevera, Martina Franca, e di nuovo a Bevera. Sono stato anche nel Suam (Segretariato unitario di animazione missionaria) e nel Consiglio missionario della Conferenza episcopale italiana.
Erano anni di grande fermento missionario con incontri, convegni, marce della pace.
Finalmente, nel febbraio 2004 è iniziata la nuova avventura della Mongolia dove sono andato quasi per caso, in sostituzione di un confratello che all’ultimo momento si era ammalato.
Una missione esaltante. Prima di tutto perché fatta in stretta collaborazione con le suore della Consolata, e poi perché la Chiesa cattolica, appena arrivata nel 1992, era agli inizi, come le prime Chiese di Gerusalemme e Antiochia. C’era tutto da vedere, studiare (lingua compresa), capire, provare.
Sono stato venti anni in una nazione che viveva il suo primo tempo di democrazia dopo 70 anni di duro socialismo.
Eravamo una Chiesa nuova in un Paese “nuovo”: siamo cresciuti insieme, con alti e bassi nelle nostre relazioni.
Nel 2008, l’allora vescovo dell’unica diocesi del Paese, monsignor Wenceslao Padilla, mi ha chiesto di dare una mano come vicario episcopale, cosa che ho cercato di fare al meglio per 10 anni fino alla sua morte.
Un incarico di un certo peso in una Chiesa che stava muovendo i suoi primi passi, che costruiva una relazione con le autorità locali, e lavorava per chiarire il suo tipo di presenza, progettare piani pastorali di lungo termine, accogliere congregazioni per ampliare il servizio missionario, darsi una struttura di base, formare un laicato preparato.
Nel settembre 2023 sono stato chiamato all’ufficio generale di formazione a Roma, dove ora risiedo da febbraio 2024: una pagina nuova che in questi inizi vivo tra la nostalgia degli anni di missione sul campo e la consapevolezza della responsabilità di aiutare le giovani generazioni di missionari della Consolata a crescere e a vivere con gioia, dedizione ed entusiasmo, il dono della vocazione alla missione».
Due parole sulla Mongolia?
«È un Paese giovane, con alcuni limiti invalicabili: è una locked land schiacciata fra i due grandi vicini: Russia e Cina. Un Paese enorme (cinque volte l’Italia) ma con una popolazione di 3 milioni e mezzo di abitanti. Economicamente dipende dalle sue ricche miniere (rame, carbone, oro, uranio, terre rare, ferro) che la rendono soggetta alle fluttuazioni di mercato.
La sua esperienza democratica è ancora tutta da consolidare.
È comunque un Paese in crescita che si proietta con calma nel suo futuro».
Raccontaci un episodio della tua vita missionaria.
«Nel 1990 i ribelli di John Garang invasero il Sud del Sudan (allora Paese unito). A Doruma si riversarono cinquemila rifugiati che, con padre Giuseppe Fiore, accogliemmo. La vita del rifugiato è un continuo dramma, una fuga verso l’ignoto con la speranza di ritornare a casa.
Una bimba, Celestina, di 2 o 3 anni, morì quasi nelle mie mani. Difficile dimenticare.
In positivo, ricordo il grande entusiasmo dei miei giovani mongoli inviati a studiare all’estero (Corea, Filippine e Roma) che oggi hanno incarichi full time di responsabilità nella Chiesa locale. La Chiesa in Mongolia, infatti, appartiene prima di tutto ai mongoli, e deve profumare della cultura e tradizione delle loro steppe».
Quali sono le grandi sfide della missione del futuro?
«Le sfide sono quelle del nostro tempo. Cambiano le generazioni e i modelli del vivere umano, la vita online, ad esempio, influenza tutti, religiosi compresi.
Ci sono poi diverse contraddizioni: perdita del senso religioso da una parte e nostalgia dello spirituale dall’altra; voglia di pace con pochi percorsi concreti e applicabili, e la moltiplicazione dei conflitti; grandi campagne per la salvaguardia del creato ma difficoltà nel cambiare stili di vita e abitudini inquinanti.
Certo la missione ha nel cuore la fede, la voglia di condividerla, di far capire e sperimentare che stare con il Signore non è una perdita, anzi. Trasmettere questo, però, non è semplice.
Ci mancano figure di riferimento che usino parole cariche di pensiero e, soprattutto, di vita, che tocchino la mente, il cuore e il corpo delle persone».
Cosa offrire al mondo come Missionari della Consolata?
«Noi abbiamo la nostra vita da offrire, e una passione per la missione che parte dal Signore e opera nella Chiesa con un carisma, una qualità particolare: quella che ci ha insegnato (san) Giuseppe Allamano.
Dentro questo c’è di tutto e di più: la voglia di essere santi, discepoli del Signore, ma anche figli legittimi della Consolata, il desiderio che molti incontrino il Signore, il lavoro per la dignità della vita di ogni persona, di interi popoli, la formazione di laici responsabili…».
Cosa fare, secondo te, per coinvolgere i giovani?
«La mia esperienza con i giovani in Italia e in missione mi ha convinto che, prima di tutto, è necessario stare con loro da persone adulte, ricche di saggezza, in un maturo ruolo di consigliere e guida (l’Asia e l’Africa insegnano…). No a certi “giovanilismi” di maniera.
Ho sempre ritenuto importante organizzare momenti, eventi, conferenze, proporre esperienze dentro un percorso graduale che abbia una sua logica e prospettiva di sviluppo. Si parte da A per arrivare a Z, da ground zero per diventare persona di fede e di missione. No a proposte che dispensano solo occasionali emozioni.
Sono sempre stato accogliente con tutti i giovani, però confesso che sono stato anche piuttosto esigente sulla coerenza tra la loro vita e la fede, e sull’onestà nell’impegno di gruppo. L’impegno per la missione è cosa seria, non un gioco».
Ci suggerisci uno slogan per i giovani dei nostri centri?
«“Stanchi di camminare… si misero a correre”. Perché questo è lo stile, la gioia e l’entusiasmo di essere missionari».
di Luca Lorusso
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Luca Lorusso
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