Padre Gianni Treglia nasce a Cursi (Lecce), nel 1968.
S’innamora fin da ragazzo della missione grazie ai racconti di suore e sacerdoti. Diventa missionario lui stesso e parte per 16 anni di Tanzania dove lavora nella formazione, nell’animazione missionaria, nella missione di periferia, nell’informazione.
Nel 2011 è destinato in Italia dove lavora nell’animazione in Lombardia e nell’accoglienza dei migranti in Sicilia. Oggi è superiore della Regione Europa.
«Sono nato a Cursi, in provincia di Lecce il 29 aprile 1968.
Sono diventato missionario della Consolata il 26 agosto 1990 con la professione religiosa a Vittorio Veneto (Tv). Sono stato ordinato sacerdote a Cursi il 7 luglio 1995».
Padre Gianni, perché sei missionario della Consolata?
«Fin da ragazzino ero affascinato dai racconti di una suora del mio paese, missionaria in Tanzania (interessante che dopo tanti anni ci sarei finito anch’io in Tanzania; coincidenza?).
Questa passione mi è sempre rimasta, e con essa il desiderio di Africa, di andare dove qualcuno avesse bisogno.
Da lì nacque la mia ricerca missionaria. Entrai nel seminario della mia diocesi, non capendo ancora cosa volessi fare esattamente della mia vita.
Proprio durante gli anni di seminario, non mi lasciai scappare l’occasione di incontrare e dialogare con missionari che passavano per qualche incontro o testimonianza.
Tra i tanti, mi affascinò tantissimo padre Francesco Babbini, missionario della Consolata con una vita spesa in Venezuela.
Il suo entusiasmo mi prese fin da subito. Il suo amore per la missione si vedeva a ogni parola detta. La sua gioia di appartenere all’Imc lo portava a dire: “Siamo una famiglia”.
Mi incollai a lui per ascoltarlo, sentire la sua passione.
Purtroppo tutto questo durò solo un paio di mesi: morì improvvisamente all’età di soli 52 anni. Era il 19 marzo 1984, io avevo 16 anni. Fu allora che decisi di diventare missionario della Consolata: un missionario veniva meno, qualcuno avrebbe dovuto prenderne il posto.
Così, l’anno successivo, nel settembre del 1985, entrai nella comunità dei missionari, a Bevera, finii i miei studi di liceo e poi andai a Torino per la filosofia.
Entrai in noviziato a Vittorio Veneto nell’agosto ‘89, e l’anno successivo feci i voti religiosi.
Poi fui destinato a studiare teologia presso il seminario internazionale di Roma Bravetta.
Finiti gli studi, fui ordinato sacerdote nel 1995 e subito destinato alla missione in Tanzania. Sono rimasto lì fino al 2011».
Come hai vissuto la missione in Tanzania?
«Come un sogno realizzato. Sono stati anni bellissimi, intensi, vissuti ancora con gli occhi di quel ragazzino “innamorato d’Africa”, e con un entusiasmo che non si è mai spento con il passare del tempo. Ho potuto servire in modi diversi la missione: tramite la formazione di giovani nel nostro seminario filosofico a Morogoro; la missione nella periferia della grande città di Dar es Salaam con le sue sfide, tra la modernità che attrae e la grande povertà che tocca molti, soprattutto per la mancanza di mezzi materiali e intellettuali. Ho lavorato poi nell’informazione, con la fondazione di una rivista missionaria in lingua swahili, “Enendeni”. E ancora nella formazione e nell’animazione missionaria, per aiutare la chiesa locale a vivere il passaggio da una fede accolta con entusiasmo, ma spesso superficiale nelle sue espressioni, a una fede più incarnata che illumina la vita quotidiana delle persone e anche la vita sociale di tutti».
Cosa accomuna tra loro i tuoi servizi in Tanzania?
«In ciascuno di essi ho sempre cercato di incontrare l’uomo. Certamente imparando la lingua locale, ma soprattutto mettendomi in ascolto della realtà, della cultura, della persona.
Quando si parte, si pensa a chissà quali grandi cose si faranno. Poi, invece, ci si accorge che ciò che più conta è l’ascolto dell’altro. Si impara così a crescere insieme, crollano tanti pregiudizi sulla povertà e le sue dinamiche, si crea comunione vera. Accogliendo l’altro per quello che è, si entra in una relazione buona, e questo è Vangelo.
Credo di aver compreso questo in modo più intenso solo quando ero prossimo a lasciare il Tanzania per rientrare in Italia, dove ero stato destinato dai miei superiori nel 2011: tante persone venivano a salutarmi, per augurarmi buona missione lì dove sarei andato. Tra questi, un signore – chiamiamolo Rashid – venne a portarmi poche uova e una gallina per il viaggio. Ma io Rashid lo conoscevo appena. Abitava nella sua povera capanna con sua moglie e i suoi bimbi lungo il tragitto che percorrevo andando al villaggio per fare acquisti o per altre necessità.
Usavo solo fermarmi pochi minuti: una carezza ai bimbi, due chiacchiere, qualche volta sono entrato a prendere un té con lui e sua moglie. Nessun progetto per farli uscire da quella povertà, nessun impegno per offrire una vita diversa, magari un po’ più dignitosa. Un saluto, una chiacchiera, un po’ di ascolto.
“Perché questo regalo, Rashid? Mai ho fatto nulla per te, anzi, io ho solo ricevuto da te”.
“No, padre, tu ti sei fermato a casa mia, sei stato con noi, non hai avuto timore di entrare nella nostra povera realtà”.
Una gallina e poche uova per capire che il missionario, chi porta il Vangelo, è colui che ha la capacità di fermarsi e incontrare l’uomo, qualsiasi sia la sua condizione. Grazie, Rashid».
Dove ti ha portato la missione dopo il Tanzania?
«Dal 2011 mi trovo in Italia, anzi in Europa. Ho prima servito la nostra comunità di Bevera (Lc) come animatore missionario. Poi sono stato in Sicilia, a Modica, in una comunità missionaria intercongregazionale a servizio dei migranti: un’opera oggi molto missionaria e necessaria nella nostra Europa che si dice cristiana per tradizione e cultura.
Le congregazioni, insieme, hanno dato vita a una comunità per sensibilizzare chiesa e società all’accoglienza di quanti bussano alla porta della vita: si tratti di migranti economici, rifugiati di guerra o altro, sono fratelli e sorelle che cercano vita, perché vita non trovano nei paesi da cui provengono.
Noi siamo annunciatori del Vangelo della vita, questi fratelli ci interpellano. I missionari, che hanno votato la vita per il Vangelo tra popoli e culture di tutto il mondo, oggi possono essere un ponte importante tra la nostra Europa e i popoli che bussano alle sue porte».
E adesso cosa fai?
«In questi ultimi anni sono stato chiamato a “guidare” i miei confratelli in Europa come superiore regionale.
Anche questo è servizio missionario: mi ritrovo a riflettere insieme a loro su quale sia il senso del nostro essere missionari in questa realtà.
Incontrando le persone, soprattutto i giovani, mi ritrovo spesso a dire loro di aprirsi all’altro, di andargli incontro, senza paura di perdere qualcosa.
Bisogna sempre avere un ideale di bene nella vita, e questo si esprime con l’apertura, mai con la chiusura in se stessi.
I giovani devono, secondo me, recuperare i valori importanti della vita. Non credo che manchino, ma si è più presi da una vita a “spot”, nella quale ciò che oggi mi piace, domani cambia.
Le situazioni cambiano, ciò che deve restare fermo è quell’ideale di bene che ciascuno di noi ha dentro. Dovessi riassumere in uno slogan, direi: “Vivi per…, innamorato fino a dare tutto te stesso”».
di Luca Lorusso
Luca Lorusso
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