Padre Noé João Moreno è un missionario della Consolata del Mozambico in Italia dal 2013. Ordinato sacerdote nel 2019, oggi è una delle anime della casa di animazione missionaria Milaico di Nervesa della Battaglia, in provincia di Treviso.
«Sono Noé João Moreno, figlio di João Moreno e di Atija António. Ho 33 anni, sono nato a Nacala Porto, Nampula, in Mozambico. Sono terzo di nove figli, e sono stato ordinato sacerdote missionario della Consolata il 25 agosto del 2019.
Ho sentito la chiamata di Dio per diventare missionario ai tempi della scuola superiore.
Ero studente in un collegio dei missionari Comboniani. Facevo il corso di base di meccanica per automobili. Pian piano mi sono appassionato allo stile di vita di quei missionari. Alla loro semplicità e disponibilità.
Erano persone instancabili.
Concretamente mi stupiva il fatto che fossero di provenienze diverse e che, nonostante questo, vivessero come figli della stessa madre. E non solo tra di loro, ma anche con noi studenti: ci seguivano come loro fratelli minori.
Allora mi sono detto: “Mi piacerebbe essere anche io come loro, partire per annunciare Gesù ad altri popoli e culture».
Hai studiato dai Comboniani, ma poi hai deciso di diventare missionario della Consolata, come mai?
«La scelta di essere della Consolata è stata casuale.
Prima di iniziare il percorso del seminario, non sapevo che ci fossero distinzioni tra le congregazioni. Sapevo dell’esistenza di preti che venivano da lontano, stranieri, di preti locali che si spostavano solo all’interno della loro diocesi, e poi dei monaci e delle monache. Io volevo diventare come quelli che venivano da lontano.
La distinzione tra le diverse congregazioni l’ho scoperta durante gli incontri di discernimento vocazionale, alla fine dei quali sono stato interpellato con la richiesta di decidere quale istituto abbracciare.
Attraverso la rivista Fátima missionária, pubblicata in Portogallo dai Missionari della
Consolata, ho incontrato per la prima volta il nome dei missionari figli dell’Allamano. Poi un amico che li conosceva mi ha spiegato chi fossero e mi ha messo in contatto con la comunità della Consolata piu vicina che si trovava a 80 chilometri.
Così ho incontrato padre Julius Gichure, l’allora animatore missionario e vocazionale dell’Imc in Mozambico».
Ci racconti la tua storia missionaria?
«La mia storia missionaria direi che è appena all’inizio e si sta costruendo. Ho iniziato il percorso nel 2007, a diciotto anni. Prima ho finito la scuola superiore, poi ho fatto l’anno propedeutico nel 2009 nel seminario della Consolata a Nampula, Nord del Mozambico. Ho fatto il triennio di filosofia dal 2010 al 2012 nel seminario interdiocesano di Matola, Sud del Mozambico. Nell’anno 2012-2013 ho fatto il noviziato a Laulane, sempre in Mozambico. Dopo la prima professione temporanea sono stato destinato a Roma per continuare gli studi di teologia.
Dal 2014 al 2017 ho frequentato il triennio di teologia all’università Urbaniana. In questi anni, soprattutto nei periodi estivi, ho avuto l’occasione di conoscere alcune delle nostre comunità presenti in Italia.
Nell’anno 2017-2018 ho fatto l’anno dedicato al servizio all’Istituto nella comunità Milaico a Nervesa della Battaglia, Treviso, dove sono tutt’ora. È stata un’esperienza particolare perché qui, in questa comunità, assieme ai nostri padri, vivevano delle famiglie di Laici Missionari della Consolata.
Nel dicembre del 2018, sono stato ordinato diacono nella chiesa parrocchiale dei Santi Angeli custodi di Treviso, e poi sono rimasto in questa comunità esercitando il servizio diaconale. Nell’agosto del 2019 sono tornato in Mozambico per l’ordinazione presbiterale e, al mio rientro in Italia, sono stato destinato alla comunità Milaico.
Oggi sono ancora qui, collaborando con i miei confratelli nelle attività di animazione missionaria e vocazionale della casa».
Due parole sull’Italia?
«L’Italia è molto bella. C’è tanto senso di responsabilità, onestà e laboriosità. Dovunque tu vai, c’è un pezzo di storia. C’è molta attenzione alla salute e si valorizza il cibo.
A livello religioso, l’età media delle persone che partecipano alla vita della chiesa è piuttosto elevata.
Le sfide missionarie, a mio avviso, sono tante, ma non mi preoccupano, perché credo fermamente che siano utili a far crescere la Chiesa.
La sfida più grande oggi in Italia è quella di capire come far appassionare i giovani al vangelo, come proporglielo in modo che comprendano che vale la pena scommettere su di esso. Senza ridurre l’evangelizzazione al programmare cose da fare.
Altra sfida è quella di rendersi conto che oggi la missione è ovunque, la missione è in casa, la missione è qui.
Infine, un’altra sfida è la situazione vocazionale missionaria che risente dell’indifferenza diffusa su tutto ciò che è religioso».
Qual è la soddisfazione più grande che incontri?
«Le soddisfazioni che mi danno le nostre attività di animazione giovanile sono innumerevoli.
Vedere come i ragazzi crescono e come cambiano la loro visione della realtà che si apre a 360 gradi. Vedere che comprendono il senso di prendersi cura degli altri e dell’universo.
Un’altra soddisfazione è il fatto che dovunque tu vada, anche al supermercato, c’è qualcuno che ti saluta, qualcuno che ti fa sentire a casa, accolto e apprezzato».
Quali sono, secondo te, le grandi sfide della missione?
«Difficile parlare delle sfide della missione in generale, perché tutto è un cammino.
Io credo, almeno per quanto riguarda il contesto dove mi trovo oggi, anche se presenta una chiesa ancora abbastanza viva, che la sfida è la riduzione sia del numero dei fedeli, che di coloro che decidono di dedicare tutta la vita per gli altri facendosi presbiteri o religiosi.
La rievangelizzazione dell’Europa è più complessa rispetto alla “classica” prima evangelizzazione.
Per affrontare queste sfide è importante seguire la strada che da qualche parte si sta ormai facendo: quella di includere, lavorare insieme e responsabilizzare sempre di più i laici nelle varie dimensioni dell’apostolato».
Cosa possiamo offrire al mondo come Missionari della Consolata? Quali ricchezze condividere?
«La capacità di stare in tutte le circostanze della vita della gente. La semplicità e l’umiltà. L’accoglienza del diverso.
L’offerta di attività inclusive delle quali tutti si sentono partecipi.
Vedere l’ad gentes di oggi nei migranti, nelle persone in solitudine, nei malati fisici e psichici».
A partire dal tuo contesto, che cosa dovremmo fare, secondo te, con i giovani?
«Credo che stiamo già facendo qualcosa. A partire dall’idea di creare collaborazioni tra le varie case Imc europee che lavorano con i giovani.
Penso che sia importante offrire ai giovani opportunità che li responsabilizzino, stare con loro, cercare di parlare il loro stesso linguaggio.
Per questo scopo esistono vari strumenti che ci aiutano: il Suam (Segretariato unitario di animazione missionaria) nazionale e quello del Triveneto, il centro missionario diocesano con cui lavoriamo, la condivisione di esperienze tra congregazioni che ci aiuta a crescere vicendevolmente».
Uno slogan o citazione per i giovani dei nostri centri?
«“Vivere senza tentare, significa rimanere con il dubbio che ce l’avresti fatta”, di Jim Morrison.
Ho scelto questa citazione perché credo nella chiamata di Dio, ma credo anche nella libera risposta dell’uomo. E so che, come succede a me, anche per altri, questa risposta spesso è condizionata dalla paura di osare, dal timore di tentare e poi fallire, oppure di rendersi conto di avere sbagliato».
di Luca Lorusso
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Luca Lorusso
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