Padre Angelo Casadei, nato a Cesena nel 1963, missionario in Colombia, poi in Italia, e dal 2005 di nuovo in Colombia, ci racconta la sua vita missionaria e le sfide del grande paese latinoamericano.
«Sono nato a Cesena il 20 maggio 1963, secondo di quattro fratelli: Tarcisio, il maggiore, io, Gabriele, nato dopo di me, oggi missionario della Consolata in Mozambico, e Giovanna, la più giovane, che vive con mia mamma già molto anziana.
Sono cresciuto a Gambettola (FC) dove ancora oggi c’è una casa Imc che negli anni Settanta era seminario. Avevo 11 anni quando padre Vittorio Gatti, che aveva lavorato nell’Amazzonia brasiliana, ci raccontava le sue avventure. Lo faceva con tanto entusiasmo che io e mio fratello Tarcisio gli abbiamo chiesto: “Come si fa a essere missionario?”. Lui ci ha risposto: “Venite e vedete”, e noi siamo andati.
L’anno seguente è entrato anche Gabriele.
I missionari della Consolata mi sono sempre piaciuti per la loro vita comunitaria vissuta nello spirito di famiglia, la lotta contro l’ingiustizia, il loro modo di annunciare Gesù Cristo e il suo messaggio di speranza, per l’amore a Maria, lo studio della Parola, l’attenzione ai poveri, l’internazionalità e l’interculturalità delle loro comunità».
Entrato in seminario nel 1974, ti sei spostato a Torino nel 1982 per la filosofia e il postulato e a Vittorio Veneto per il noviziato. Nel 1986 sei partito per la Colombia. Ci racconti le tappe della tua missione?
«Sono partito per la Colombia con molta emozione e timore. Era la mia prima esperienza in un’altra cultura, un’altra lingua.
All’inizio sono andato in crisi, ma poi, un po’ per volta, mi sono entusiasmato: per il paese e per la sua gente cordiale, allegra e felice, nonostante la violenza che viveva in quegli anni.
Studiavo e seguivo la pastorale. Il primo anno l’ho fatto nei quartieri popolari di Bogotá: un’esperienza straordinaria con i tanti colombiani che arrivavano in capitale da tutto il paese con il sogno di migliorare la propria vita.
In seguito mi sono inserito nell’animazione missionaria e nell’accompagnamento del laicato missionario. Questa esperienza mi ha fatto capire quanto sono importanti i laici nella missione. In tre anni, abbiamo inviato undici laici missionari, soprattutto nel vicariato apostolico di San Vicente del Caguán – Puerto Leguizamo.
Quando nel 1991 sono stato chiamato in Italia, ho organizzato diverse esperienze missionarie da cui è nato un movimento di laici che ha dato vita alla casa Milaico di Nervesa della Battaglia (Tv).
Quest’attività di animazione in Italia è stata per me un’esperienza missionaria tanto ricca che ancora oggi mi dà gioia e condivido.
Dopo 15 anni, nel 2005, la “missione ad gentes” mi ha chiamato di nuovo, e sono passato dalla frenesia dell’Occidente alla selva amazzonica del Caquetá, in Colombia, dove il tempo sembra fermo. Arrivato lì, ho capito che nell’Amazzonia sono le persone che gestiscono il tempo, non è il tempo che comanda la nostra vita.
In questo momento sono nella parrocchia Nostra Signora della Mercede, proprio la missione nella quale avevo fatto, nella Pasqua del 1987, la mia prima esperienza missionaria. Dal 2017 sono parroco di questa immensa parrocchia che allora contava quasi 100 villaggi».
Che lavoro svolgi oggi?
«Mi trovo nel luogo più bello del mondo. La selva amazzonica colombiana, una volta considerata periferia del mondo, oggi è centro d’interesse per chi la vuole sfruttare.
I missionari della Consolata sono arrivati qui nel 1952 per accompagnare le comunità indigene. Oggi la nostra presenza è ascoltare il grido della selva e stare con la popolazione di questa terra abbandonata e indifesa.
Sono parroco con un bellissimo gruppo di evangelizzatori: quattro suore missionarie serve del Divino Spirito, tre missionari della Consolata, un laico missionario della Consolata e animatori e catechisti locali. In più, da quest’anno ci sono anche due seminaristi dell’arcidiocesi di Bucaramanga per l’anno pastorale.
Il nostro lavoro è quello di accompagnare le persone di questo immenso territorio. Ci sono villaggi che riusciamo a visitare una volta l’anno. Cerchiamo di seguire i giovani che sono quelli a maggior rischio di arruolamento nei gruppi armati. Visitiamo continuamente le famiglie, perché la vicinanza alle persone è fondamentale. Oggi la sete di Dio è molto forte, ci sono però proposte da parte delle nuove chiese evangeliche che sconvolgono la vita delle famiglie».
Quali sono la difficoltà e la soddisfazione più grande della tua missione?
«Molte volte, di fronte alla realtà, ci si sente piccoli, impotenti. Impressiona come l’ondata di violenza e narcotraffico che ha vissuto questa regione abbia distrutto molti valori umani e cristiani. In più, la continua mobilità delle persone che cercano lavoro e sicurezza rende difficile avere una comune cultura di base su cui fondare il lavoro di evangelizzazione.
La soddisfazione più grande è il fatto che sto vivendo il sogno della mia vita: essere missionario in uno dei territori più belli del mondo con le sue bellezze, la sua gente e le sue sfide».
Quali sono le sfide?
«Tra le sfide più grandi ci sono sicuramente l’indifferenza e il relativismo. Nel nostro territorio: la perdita dei valori umani per il problema del narcotraffico, e la distruzione della selva. Ma anche la difficoltà di tenere insieme una popolazione plurietnica con una storia attraversata dalla violenza. La presenza delle nuove chiese evangeliche che stanno confondendo la mente e il cuore della gente. Oggi altre sfide missionarie sono la cura delle minoranze etniche, delle popolazioni afro, delle zone isolate del paese, dove la comunicazione è scarsa, ma anche delle grandi città».
Come affrontarle?
«Stando a fianco alla gente, alle comunità dei villaggi, visitando le famiglie, formando le coscienze, in particolare i giovani».
Puoi raccontare un episodio significativo della tua vita missionaria?
«L’incontro con una signora molto povera all’inizio della mia vita missionaria. Lei viveva nella periferia di Bogotá. Un giorno sono entrato nella sua casa. Lei stava seduta ad allattare un bambino. Sulla tavola ho notato un libro. L’ho preso in mano: era la Bibbia. Per iniziare un discorso le ho detto: “Vedo che legge la Parola di Dio”. Lei mi ha risposto con una frase che ha marcato la mia vita: “È l’unica speranza per noi poveri”».
Ci regali uno slogan per i giovani che si avvicinano ai nostri centri missionari?
«Vedendo quello che sta succedendo nell’Amazzonia direi: “Giù le mani dall’Amazzonia”, oppure: “Giovani! Guardiani della casa comune”, o “Giovani! Custodi della casa comune”».
di Luca Lorusso
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Luca Lorusso
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