Paola e Giuseppe, che vogliono mantenere l’anonimato, condividono una riflessione sulla missione a partire da una loro esperienza in eSwatini.
Tutti siamo chiamati alla santità, ognuno con i propri carismi è sacerdote, re e profeta nel servizio per «l’Altro da noi», cioè Dio, e per i fratelli.
L’8 settembre 2019 partiamo per Johannesburg, in Sudafrica.
L’evangelista Luca ci mostra che Dio non interviene nelle vicende umane utilizzando gli uomini come burattini e il mondo come un teatro. Le dinamiche della storia possono essere spiegate in termini puramente umani. Chi pensa che Dio muova la storia indirizzandola sui percorsi che Lui vuole, non è lontano dal vero, benché forse sia un po’ semplicista. È più corretto dire che Dio agisce all’interno di una storia che comunque segue le sue logiche. Fuori dalla logica di fede si potrebbe anche dire che la storia dipende solo dal caso, ma con gli occhi della fede, il credente vede Dio all’opera.
Il 9 settembre, dunque, atterriamo in Sudafrica e visitiamo la missione dei missionari della Consolata. L’esortazione apostolica Evangelii Gaudium del 2013, qui appare chiarissima: la missione è gioia.
Il papa in quel testo fa alcuni esempi presi dalla sua esperienza: «Posso dire che le gioie più belle e spontanee che ho visto nel corso della mia vita sono quelle di persone molto povere che hanno poco a cui aggrapparsi. Ricordo anche la gioia genuina di coloro che, anche in mezzo a grandi impegni professionali, hanno saputo conservare un cuore credente, generoso e semplice».
Nello stesso 9 settembre ci avviamo in auto verso un’altra nazione, lo Swaziland (dal 2018 eSwatini, ndr). Ai missionari che operano in quel paese, dedichiamo una citazione del messaggio del papa per la giornata missionaria mondiale del 2019: il missionario non è un supereroe, ma una persona normale che per amore «si mette in movimento, e spinto fuori da se stesso è attratto e attrae, si dona all’altro e tesse relazioni che generano vita».
Il 10 settembre siamo dal vescovo del luogo che ci confida che la sua missione è sempre un andare all’incontro dell’altro e, in modo particolare, all’incontro di colui/colei che non si sente degno. Per lui «la Parola si è fatta carne» è un’espressione che descrive bene quel Dio venuto incontro a noi nella nostra fragilità.
L’11 settembre siamo inviati in un campo profughi che i missionari sentono, come afferma una sorella della Consolata, «ad gentes e tra la gente». Lei preferisce rimanere lì, visto che ci sono tutte le opportunità per formarsi alla santità – che è lo scopo finale della vita di ogni missionario della Consolata -, vivendo i momenti di scoraggiamento, dolore e fatica con la convinzione che Dio si comunica proprio per mezzo di quelle persone in difficoltà.
Il 12 settembre giungiamo in una missione molto toccante, in una «periferia esistenziale» in cui vi sono 50mila bambini, tra i quali 25mila sono orfani che vivono con un pasto al giorno offerto dalla Caritas. Qui si ode la voce dei missionari che affermano che la missione si esprime nell’andare, ma che il restare è una parte fondamentale.
Ci ritroviamo accanto ai poveri che piangono insieme a Dio. Come dice la Laudato si’, Dio «piange per i colpi inferti alla madre terra e si china a consolare i suoi figli». Qui infatti le condizioni climatiche portano alla desertificazione, e l’umanità con il suo inquinamento globale ne è responsabile.
Il 13 settembre ci soffermiamo con più calma nella casa dei missionari della Consolata e preghiamo con i loro seminaristi che ci spiegano perché hanno deciso di farsi missionari: «Certamente questo è un mistero che ci supera e ci avvolge», dicono, «ma anche molto concreto, perché se Dio per raggiungerci ha scelto di farsi uomo, l’incontro con Lui passa ancora oggi attraverso la nostra umanità. Questo secondo noi è il cuore della missione: se il Vangelo non ci attraversa profondamente è difficile che riusciamo a condividerlo».
Il 14 settembre Dio continua a parlarci al cuore. È il nostro ottavo giorno in questa terra di speranza, e capiamo che il missionario, per essere tale, deve fare una forte esperienza personale di Dio, che gli tocchi il cuore. Il missionario conosce Dio ed è conosciuto da Lui, ha un rapporto quotidiano con Lui secondo il momento che sta vivendo, consapevole che l’amore alla comunità a cui è inviato nasce dalla conoscenza, dal comprendere che la comunità è un microcosmo del Regno di Dio.
La passata colonizzazione di questa terra da parte degli europei va intrisa di sapienza. Una sapienza che vada oltre gli interessi basati sullo sfruttamento delle materie prime (diamanti, carbone, canna da zucchero, ecc). Il popolo ha bisogno di riferimenti, non di colonizzatori, e di una comunità unita nella diversità delle culture qui presenti. La missione deve essere un segno contro culturale in un mondo che oggi tende verso l’uniformità: «Siamo missione, non facciamo la missione», è l’esperienza dei padri della Consolata chiamati a inculturarsi e non a seguire la cultura dominante.
Il 15 e 16 di settembre, la terra dagli odori e sapori forti che ci ospita e ci spoglia, ci riporta al pensiero un padre kenyano in missione a Torino che tempo fa ci ha spiegato qual è «l’Aids» della nostra cara Italia: «In fondo, quei ragazzi dell’angolo della strada hanno la stessa umanità, le stesse domande, gli stessi sogni di tutti, e il missionario cammina in mezzo a loro salutando e facendo due chiacchiere, mentre al calar del sole le strade si riempiono di giovani e adulti in cerca di svago e anche di un po’ di soldi: chi beve sulla strada, chi chiacchiera, chi spaccia, chi si prostituisce». In questi giorni, che sono anche gli ultimi della nostra esperienza, quindi, visitiamo i così detti ghetti, o «case per i cani», e aderiamo alle parole di uno che sa molto più di noi: «La missione è una grande avventura, non solo dei consacrati, ma di tutta la Chiesa, di ogni battezzato, di ogni essere umano. Oggi la nostra presenza consiste nell’ascoltare il grido di una belva in agonia. La missione è come un corpo vivo in continua evoluzione, che si pone delle domande, che cambia e ti fa camminare».
di Paola e Giuseppe
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Paola e Giuseppe
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