Il missionario deve meditare la Parola assiduamente, per lasciarsi forgiare da essa, contemplando, accogliendo la croce, rendendo presente Gesù. Ecco la terza di tre puntate sulla spiritualità missionaria.
Anche per il Vangelo di Marco dobbiamo tenere presente che, come succede per tutti i testi del Nuovo Testamento, l’autore rielabora le tradizioni riguardanti Gesù secondo le esigenze della sua comunità cristiana e la sua visione teologica. Va però tenuto ben presente che la voce del Maestro risuona più autenticamente nelle parole dei Vangeli che non in tutte le successive interpretazioni.
Il Concilio Vaticano II esorta con forza a ridare la parola del Vangelo al popolo a cui appartiene. Essa è parola di vita per tutte le generazioni dei credenti che camminano verso l’eternità. Il missionario deve essere convinto di questo e quindi deve dedicarsi assiduamente alla lettura e meditazione dell’eterna parola di Dio e lasciarsi forgiare da essa. Cerchiamo ora di identificare le linee di spiritualità che emergono dalla lettura del Vangelo di Marco.
L’arte di Marco
Dalla postazione visuale della risurrezione, Marco ripercorre le fasi salienti del ministero pubblico di Gesù che lo condussero alla morte e poi alla risurrezione. Tutto questo diventerà il contenuto della predicazione della Chiesa primitiva.
La Chiesa di tutte le generazioni che si susseguono è invitata a meditare con costanza e dedizione la vita di Gesù allo scopo di percepire come in essa Dio sia entrato nella storia dell’umanità e desideri salvare tutti i popoli.
Con arte letteraria Marco ha appoggiato la sua opera su tre pilastri portanti di taglio teologico allo scopo di far emergere la vera identità di Gesù come Figlio di Dio.
Il primo pilastro si trova nell’episodio del battesimo di Gesù, in cui risuona la prima rivelazione: «Tu sei il mio Figlio diletto in cui mi sono compiaciuto» (1,11).
Il secondo si trova all’inizio della seconda parte del Vangelo: l’episodio della trasfigurazione, durante la quale la voce del Padre proclama ai tre presenti: «Questi è il mio Figlio diletto, ascoltatelo» (9,7).
Infine il terzo pilastro si trova al momento della massima rivelazione: ai piedi della croce il centurione pagano fa la sua professione di fede: «Veramente quest’uomo era il Figlio di Dio» (15,39).
Questi tre pilastri teologici che chiameremo «archi di tensione», posti all’inizio, a metà e alla fine del Vangelo, governano, per così dire, il comportamento dei discepoli e fanno emergere le linee di una spiritualità missionaria.
Primo arco: contemplare
La rivelazione di Gesù come Figlio di Dio segna l’inizio della chiamata, conversione, venuta alla fede dei primi discepoli. Gesù inizia il suo ministero pubblico associando a se stesso i primi quattro discepoli. In seguito, dopo le prime controversie con i suoi oppositori e l’esperienza nella sinagoga di Cafarnao, Gesù costituisce il gruppo dei dodici. Il nuovo Rabbi sceglie liberamente «quelli che volle» (3,13), li chiama perché «stiano con lui» (3,14) perché diventino suoi compagni stabili di viaggio.
L’episodio dell’indemoniato di Gerasa è istruttivo. Appena guarito, chiede a Gesù di poterlo seguire, ma Gesù non glielo permette (5,18).
Il compito dei discepoli, quindi, era quello di ascoltare il suo insegnamento, impartito con autorità, e di vedere le sue opere.
La convivenza con Gesù permette loro di penetrare progressivamente la sua vera identità (vedi 1,27; 4,41; 6,14; 8,27.29), il mistero del regno (cf. 4,41), e di diventare testimoni di eventi segreti ed epifanici (cf. 5,37.40).
L’esperienza di ascoltare e di vedere quello che Gesù dice e fa, finirà con il diventare l’oggetto della loro proclamazione e testimonianza. Saranno infine mandati in tutto il mondo per comunicare le parole che hanno sentito ed operare le stesse azioni che hanno visto.
La spiritualità che deriva da questo primo arco di tensione è molto lineare, ma allo stesso tempo molto esigente: eliminare tutte le iniziative individuali. Sarà l’epoca del silenzio e della contemplazione di quanto visto e sentito.
Secondo arco: accettare la croce
Dalla sommità del monte della trasfigurazione, la voce del Padre risuona: «Questi è il mio Figlio diletto, ascoltatelo» (9,7). Dal Padre viene una esortazione/comando a prestare ascolto. Né il Figlio né gli altri, al contrario di quanto Pietro si permette di suggerire, possono rimanere sul monte. Tutti devono tornare nella valle di Esdralon. Devono camminare in mezzo alle abitazioni delle persone e in questo cammino imparare cosa significa essere discepoli di Gesù. I loro occhi pieni delle meraviglie viste sul monte devono ora penetrare il mistero del loro maestro, un maestro diretto verso la croce. I dodici devono imparare ad accettare le conseguenze di essere discepoli di un crocefisso.
Nel viaggio verso Gerusalemme, infatti, Gesù li istruisce sulla passione per tre volte (cf. 8,31; 9,30-31; 10,32-34), per tre volte essi non capiscono (cf. 8,32-33; 9,32-34; 10,32-34), e per tre volte egli pazientemente riprende a istruirli.
La logica della croce richiede di essere disposti a perdere la propria vita (cf. 8,34-38), a farsi piccoli (cf. 9,35-37), a mettersi al servizio degli altri (cf. 10,38-40.42-45).
Anche qui le linee di spiritualità sono molto chiare. Il vero discepolo traduce la luce della trasfigurazione in una dinamica di accettazione della croce, e in un sovrabbondante amore per gli altri. Egli deve mettere da parte le proprie iniziative e seguire le orme del maestro.
La spiritualità che qui emerge è un pressante invito a abbandonare il monte delle ideologie, sociologie e psicologie, e imprimere nel proprio cuore l’abbagliante luce della gloria del Padre. Solamente una simile luce aiuterà ciascuno a portare l’inevitabile croce e, attraverso essa, cooperare con Cristo per la redenzione del mondo.
Terzo arco: rendere presente gesù
Alla fine del Vangelo la confessione-rivelazione avviene ai piedi della croce per opera di un centurione romano: «Veramente questo uomo era il Figlio di Dio» (15,39). È questo il momento in cui il silenzio imposto da Gesù ai demoni (1,34; 3,12) e ai discepoli (8,30; 9,9) si infrange contro l’evidenza dell’amore. Il silenzio ora deve diventare la voce della fede che annuncia la morte e risurrezione di Gesù. Qui, sotto la croce dove apparire evidente che il Gesù del battesimo e della trasfigurazione è il Figlio di Dio e il rivelatore dell’amore del Padre per l’umanità.
L’affermazione programmatica dell’inizio del Vangelo: «L’inizio della buona novella di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (1,1) era un’anticipazione del contenuto del Vangelo stesso, che doveva essere predicato a tutte le genti. Durante la vita convissuta con Gesù, il discepolo ha ascoltato i suoi insegnamenti e ha visto le sue opere. Infine riconosce in lui il Figlio di Dio. Nutritosi alla scuola del Maestro e trasformato dalla convivenza con lui, il discepolo deve raccogliere il comando del risorto e farsi missionario itinerante lungo le strade del mondo, per testimoniare quanto Gesù ha fatto e insegnato. Dalla sua esperienza, il missionario deve irradiare la luce della trasfigurazione e con essa riscaldare i cuori dei suoi fratelli e sorelle. Si guardi bene egli dall’aggiungere del suo: deve solo rendere presente il Cristo in tutti i sentieri della storia.
di Antonio Magnante
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Leggi i due articoli precedenti:
– il secondo: La preghiera secondo Matteo
– il primo: Spiritualità missionaria: assimilazione a Cristo
Antonio Magnante
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