“Occhio per occhio… e il mondo diventa cieco”. L’autore di questa affermazione è Gandhi. Lui non era albanese, ma le sue parole credo descrivano bene la realtà del paese in cui abbiamo vissuto una breve esperienza missionaria nell’estate 2017, accompagnati da padre Gianfranco Testa, missionario della Consolata.
L’Albania mi ha sorpreso
Dopo essere stata varie volte in Africa e in Mongolia, insomma in paesi “del terzo mondo” in tutti i sensi, non pensavo di poter ritrovare tante analogie con essi in uno stato a pochi chilometri dall’Italia: l’Albania mi ha sorpreso.
Durante gli incontri di formazione al Cam, il Centro di Animazione Missionaria di Torino, padre Testa ci ha introdotti ai temi del perdono e della riconciliazione, nominando spesso l’Albania e le “famiglie in vendetta”. Insieme al mio ragazzo abbiamo così deciso di vivere una breve esperienza di missione a Scutari e Tirana durante le vacanze estive.
Possiamo dire entrambi di essere contenti di questa esperienza, ma mi ha fatto riflettere la differenza di aspetti che ci hanno colpito. Io arrivo da una vita già un po’ più in stile missionario (mia zia è suora della Consolata, mia mamma ha vissuto anni in Tanzania e in Nicaragua da giovane, i miei genitori hanno portato me e i miei fratelli in Mongolia quando mia sorella aveva appena un anno e io stessa avevo fatto diverse esperienze in terre di missione con gruppi o da sola), mentre Matteo ha conosciuto il Cam solo l’anno scorso e non aveva ancora avuto occasioni di toccare con mano realtà di paesi più poveri. È naturale quindi che le impressioni che ci portiamo dall’esperienza comune in Albania siano diverse: per questo abbiamo pensato di proporle entrambe.
L’esperienza di Eleonora
Conoscevo un pochino la cultura albanese grazie ai racconti di padre Gianfranco, ad alcuni amici albanesi che frequentavo da ragazzina e ai resoconti di mia mamma che c’era stata l’anno scorso. Come sempre, però, provarla sulla propria pelle è tutta un’altra cosa!
Come ho detto, l’Albania mi ha ricordato per molti versi l’Africa: i mercati per terra, i negozietti scrostati e pieni di qualsiasi cosa, spazzatura ovunque… Rispetto alle missioni in Tanzania, in Kenia o, ancora di più, in Mongolia, qui avevo il grande vantaggio della lingua perché bene o male quasi tutti capiscono un po’ l’italiano e tanti lo parlano bene. Per quello che ho visto, la povertà materiale non è paragonabile a quella di Manda (in Tanzania) o di Arveiheer (in Mongolia), è stata quella culturale a colpirmi di più. In Albania si vive basandosi sulla vendetta. Sembra si goda sempre del male vissuto da chi ci ha fatto un torto. Esiste addirittura una sorta di codice d’onore (il Canun), ormai fortunatamente illegale, secondo cui se una persona uccide un uomo, la famiglia della vittima ha il diritto (che diventa quasi un dovere morale) di vendicarsi, ammazzando qualcuno (rigorosamente maschio) della famiglia della persona che ha ucciso.
Parlando di “famiglie in vendetta”, ci si riferisce sia a quella della vittima che a quella di chi ha ucciso.
La prima si trova a doversi vendicare pur sapendo che chi ucciderà, oltre a finire in prigione, renderà a sua volta orfani i figli e vedova la moglie dell’uomo che andrà a uccidere. L’alternativa è quella di essere giudicati vigliacchi, traditori del proprio sangue e venire, così, esclusi dalla società e dal resto della famiglia stessa, profondamente radicata in questa idea.
Io sono andata in una famiglia con una situazione particolare: oltre al nonno, era stata uccisa per sbaglio una ragazza che, vista da lontano, era sembrata il nipote maschio. Secondo il Canun, chi uccide deve rivendicare l’omicidio ma, dato che sparando a una donna si è considerati codardi e vigliacchi, l’omicidio non era stato ammesso da nessuno. La mamma della ragazza defunta ci ha accolto molto gentilmente in casa sua secondo tutti i riti del posto, facendoci togliere le scarpe all’ingresso e offrendoci del caffè turco, una bibita e il rachì, il classico e immancabile liquore albanese. Da anni, questa donna indossa il vestito nero per il lutto della figlia e non si dà pace anche perché, quando suo fratello ha cercato di vendicarsi contro i presunti assassini, li ha “solo” feriti, e non uccisi.
Credo che questo renda un po’ l’idea di quanto sia importante per un albanese il concetto e il “bisogno” di vendetta. Il caso dell’omicidio è il caso estremo, ma la “cultura della vendetta” si notava anche nei piccoli gesti quotidiani: quando sono venuti a prenderci all’aereoporto di Tirana per portarci a Scutari, durante il viaggio, una macchina ci ha sorpassati colpendo il nostro specchietto, senza che subisse danni. Nonostante questo, la nostra autista, piena di rancore, ha augurato migliaia di euro di danni alla macchina che ci ha superato e al suo specchietto!
Anche qui in Italia ho avuto spesso a che fare con gente vendicativa, che porta rancore per anni e anni e crede di poter stare meglio solo vedendo soffrire chi gli ha fatto un torto, ma fortunatamente non è la norma. L’Albania invece, paese bellissimo con persone meravigliose, è purtroppo ancora molto segnata dalla rabbia e dall’infelicità di una cultura che fa molta fatica a perdonare oltre che a riconciliarsi.
L’esperienza di Matteo
Il viaggio in Albania è stata la mia prima esperienza missionaria.
Il 10 Agosto partivamo per la volta di Tirana. Siamo stati ospiti della comunità Papa Giovanni XXIII di Scutari, nel Nord dell’Albania, presso una casa-famiglia. Atterrati a Tirana, i responsabili della casa sono venuti a prenderci all’aeroporto per raggiungere Scutari, a circa 150 km di distanza.
L’Albania ha sofferto molto la dittatura comunista e, a distanza di 25 anni dalla sua caduta, i segni lasciati dal regime sono ancora visibili. È sufficiente far visita al convento delle clarisse di Scutari per rendersi conto delle atrocità che venivano perpetrate contro i dissidenti politici e religiosi. Il convento, una volta dei Frati Minori, era stato trasformato in prigione di stato. Recuperato dalle clarisse, oggi affianco a esso sorge il memoriale delle persecuzioni. In rispetto delle vittime, 38 delle quali beatificate nel novembre 2016, nel parlatorio delle clarisse non c’è grata che separa lo spazio per le suore dal resto del mondo: è troppo forte il ricordo delle torture del comunismo ateo. La cattedrale di Scutari trasformata in campo sportivo, la moschea in cinema, sono alcuni esempi di come la dittatura di Enver Hoxha abbia cercato di annientare ogni forma religiosa.
Durante una delle nostre uscite a Scutari con padre Testa, percorriamo una stradina che porta alla chiesa dei francescani. Ai lati della strada si alzano due muri alti e spessi: è la reazione della gente al comunismo, finalmente libera di poter delimitare i confini delle proprie abitazioni.
I campi, un tempo di proprietà dello stato, oggi sono rivendicati da più persone, cosa che fa nascere ostilità tra famiglie diverse.
Nel Nord dell’Albania, là dove la complessa macchina statale faceva più fatica a tenere sotto controllo le persone, si è diffuso il Canun che contempla la vendetta come arma per tenere alto l’onore della famiglia. Chi subisce l’uccisione di un proprio parente, ha il diritto/dovere di colpire con la morte la famiglia dell’uccisore. La vendetta non può avvenire in casa, considerata luogo sacro. Le famiglie che aspettano la vendetta sono quindi costrette ad auto recludersi, i bambini non vengono mandati a scuola, e le azioni più semplici, come andare dal medico o fare la spesa, diventano pericolose. Si crea in questo modo un circolo vizioso di odio che alimenta l’odio. Padre Testa, studioso del perdono e della riconciliazione, collabora con l’Operazione Colomba per aiutare le famiglie in vendetta. La famiglia che ho incontrato vive in un villaggio alle porte di Scutari. Le strade sono brutte, piene di buche e nei villaggi non sono asfaltate. Il traffico è totalmente disordinato e senza regole (percorrere la strada contromano è la norma).
Durante il viaggio, padre Testa mi ha raccontato la situazione della famiglia che stavamo per incontrare: un giovane padre di famiglia, incitato dai propri genitori a tenere alto l’onore della famiglia, era in attesa di vendicare la morte di un cugino. Fin dall’inizio della vicenda, il giovane aveva dichiarato di non voler vendicarsi, nonostante le continue richieste di vendetta che riceveva dai propri genitori. Una scelta difficile e forte, perché controcorrente. Nel Nord dell’Albania, quando ci si deve vendicare, non importa che tu sia cattolico, ortodosso o musulmano: se si deve sparare, si spara. Il giovane si è rivolto all’Operazione Colomba per essere aiutato: ha conosciuto padre Testa e, con la nascita della figlia, tre anni fa, qualcosa è cambiato. Il cuore si è addolcito e l’odio, poco alla volta, è stato messo da parte. Sembra che i genitori del giovane padre di famiglia abbiano iniziato a capire cos’è il perdono. Mi ha colpito l’accoglienza di queste persone, pronte ad offrici ciò che di meglio hanno da dare.
Nella casa famiglia di Scutari, il nostro aiuto si è tradotto in attività semplici: cucinare, lavare i piatti, pulire la casa e far giocare/studiare i ragazzi. Ognuno ha un compito e tutti si aiutano affinché la casa sia un luogo di accoglienza. I bambini parlano un italiano fluente perché spesso guardano la televisione italiana. Parlando con Laura, la responsabile della casa famiglia, ho scoperto che l’ambizione di molti ragazzi, una volta diplomati, è quella di trasferirsi a Tirana per lavorare nei call-center. Sono i ragazzi che spesso chiamano nelle nostre case, nel vano tentativo di proporci un’offerta: quasi mi sento in colpa al pensiero di come mi comporto quando rispondo alle chiamate di questi operatori. Camminando per le strade, colpisce la presenza di case malridotte, costruite durante la dittatura e dove oggi si aggirano molti cani randagi, accanto a nuove abitazioni in fase di costruzione, realizzate con i soldi che gli albanesi emigrati mandano alle famiglie rimaste in Albania.
Un venerdì mattina, siamo accompagnati da alcuni ragazzi della comunità a far visita al castello di Scutari. Il castello sorge su un’altura, alle porte della città. La vista è bellissima perché si vede l’intera città, il fiume che la attraversa e il lago che segna il confine con il Montenegro. Resto colpito dal suono che si avverte in lontananza: il canto del muezzin che dal minareto chiama i fedeli alla preghiera. La convivenza religiosa è la normalità: nel centro di Scutari, a pochi metri dalla moschea sorge la chiesa ortodossa e più in là la cattedrale cattolica.
Come ultima tappa del nostro viaggio, abbiamo deciso di far vista alla Comunità Papa Giovanni XXIII di Tirana. Questa volta, per evitare di essere accompagnati fino a Tirana, decidiamo di usufruire dei mezzi di trasporto pubblico. Il collegamento Scurati-Tirana è garantito da corriere che per 300 lek (circa 2 euro) fanno da navetta tra le due città. L’alternativa sono i furgoni, auto che privati usano per guadagnarsi da vivere facendo concorrenza alle corriere pubbliche. La ferrovia è da escludere: i treni, vecchi e arrugginiti, vengono messi a disposizione solo nelle grandi occasioni, come la festa di Sant’Antonio da Padova a cui gli albanesi sono devoti. Nel viaggio rimango impressionato dai numerosi campi sul bordo della strada lasciati incolti: è un vero peccato, considerato il clima caldo e mite.
Tirana è una città più grande di Scutari e ho l’impressione che sia meno arretrata. La notte ci aggreghiamo ad alcuni volontari del servizio civile e facciamo un giro per il centro città a portare un pasto ai senzatetto. Poco distante dalla moschea storica nel centro città, noto che è in costruzione una nuova moschea, molto più grande: a Tirana circa il 70% della popolazione è di fede musulmana e, per via della repressione comunista, manca ancora uno spazio adeguato a raccogliere tutti i fedeli.
Durante il ritorno, la mia riflessione si sofferma sulla distanza che separa la costa albanese da quella italiana: in linea d’aria sono poco più di 80 km nel Canale d’Otranto; culturalmente ed economicamente i due paesi sono invece molto distanti. L’Albania, nel cuore dell’Europa, soffre per il suo passato ma nonostante questo gli occhi dei giovani sono carichi di speranza per il futuro, nel desiderio di potersi riscattare.
di Eleonora Bortolomasi e Matteo Scanavino
Eleonora Bortolomasi e Matteo Scanavino
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