Progetti di accoglienza diffusa che facilitano l’inserimento dei rifugiati.
“Rifugiato a casa mia” è un progetto promosso da Caritas, cominciato con una fase pilota nel 2013 in alcune diocesi italiane. Quest’anno coinvolge 70 diocesi in tutta Italia e mira a diventare “stile e paradigma” per i territori. Sono già oltre 170 le famiglie, 150 le parrocchie e 30 gli istituti religiosi che in tutta Italia hanno aderito al progetto mettendo a disposizione circa 1.000 posti per altrettanti cittadini stranieri in difficoltà. A inizio gennaio più di 100 operatori si sono ritrovati a Roma per progettare le attività e confrontarsi sulla base delle esperienze realizzate in precedenza. I promotori raccontano a Redattore Sociale che “Non si tratta di offrire solo un tetto e pasti, ma di accompagnare i rifugiati accolti in casa a diventare autonomi e a inserirsi gradualmente nel contesto sociale”. “L’obiettivo – spiega don Francesco Soddu, direttore di Caritas italiana – è duplice: si tratta di creare delle condizioni di accoglienza migliori, ma soprattutto di innescare un circolo virtuoso di solidarietà ed accoglienza”.
Secondo Cristina Molfetta, del coordinamento Non solo asilo, il Piemonte è la regione che in Italia ha ospitato il maggior numero di esperienze di questo tipo. Esperienze che si affiancano e sono complementari al sistema Sprar e all’accoglienza gestita dalle Prefetture, che, spesso, vanno oltre l’accoglienza e l’assistenza per contrastare l’emergenza e contribuiscono allo sviluppo di percorsi positivi di sviluppo umano, sociale e professionale.
Tra le prime esperienze ci sono quelle realizzate dalla Caritas di Biella nell’ambito del progetto di Caritas nazionale “Rifugiato a casa mia”, del PIAM (Progetti Integrazione Accoglienza Migranti Onlus Asti) di Asti e dalla Pastorale Migranti di Torino in collaborazione con il Comune di Torino all’interno del progetto “Rifugio diffuso”, cominciato nel 2008.
Le esperienze di "rifugio diffuso" e "rifugiato a casa mia" sono caratterizzate dalla collocazione residenziale dei beneficiari presso famiglie o persone singole, disponibili su base volontaria. Enti e associazioni partner sul territorio monitorano poi gli inserimenti per tutto il periodo dell’accoglienza in famiglia e offrono sostegno a tutti gli attori coinvolti con interventi di accompagnamento, verifica e mediazione per portare a conclusione un positivo processo di inclusione sociale.
Tali opportunità sono state utili nel momento dell’emergenza perché hanno permesso a richiedenti asilo e rifugiati di trovare una soluzione abitativa nell’immediato, ma sono state importanti soprattutto perché, oltre a garantire vitto e alloggio, hanno permesso ai beneficiari di condividere una rete di prossimità, il calore della famiglia che metteva a disposizione per loro non solo le proprie risorse materiali, ma soprattutto una rete di relazioni sociali, “per creare dei legami col territorio che facilitino l’integrazione e che difficilmente avverrebbero in strutture numerose”, come sottolinea l’assessore alle Politiche sociali del Comune di Torino, Elide Tisi, intervenuta in un seminario sul tema dal titolo “Scegliere di accogliere” che si è svolto a Torino il 14 novembre 2014.
L’obiettivo di questi percorsi è dotare i soggetti accolti di mezzi e competenze utili per portare avanti in modo autonomo il proprio processo di inclusione sociale. Il grande successo di queste esperienze non è stato dunque tanto quello di accogliere, quanto di accompagnare “nel dopo” e, come attestano i dati, nella maggior parte dei casi, di portare all’autonomia il soggetto accolto, dal punto di vista sociale, lavorativo e abitativo. Quella che Maria Silvia Olivieri, del Servizio Centrale Sprar, ha chiamato, nel seminario di Torino, “accoglienza emancipante”, ovvero un’accoglienza capace di liberare la persona dal bisogno dell’accoglienza stessa.
In Italia, poi da qualche mese è attivo anche il sito e progetto Refugees Welcome, nato in Germania nell’estate del 2014 e poi diffusosi in Austria, Spagna e Grecia, per facilitare il contatto tra i rifugiati e i cittadini che possono e vogliono ospitarli nelle loro case, secondo il modello dell’accoglienza diffusa.
Viviana Premazzi
di Viviana Premazzi
Viviana Premazzi
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