Intervista a padre Francesco Bernardi, direttore di Missioni Consolata dal 1976 al 2002. Ora missionario in Tanzania.
«Sono nato a Falzé di Trevignano (Tv) il 23 giugno 1943. Mio padre non c’era: era in Sardegna, prigioniero degli inglesi durante la seconda guerra mondiale. Ritornato a casa alla fine del 1945, ebbe la sorpresa di trovare un marmocchio di due anni, di cui non sapeva nulla. Siamo tre fratelli: Bepi, il maggiore, sposato con famiglia, Luciano, il minore, missionario francescano in Brasile, ed io, Francesco».
Perché hai deciso di diventare missionario e, soprattutto, perché della Consolata?
«Fuori casa mi comportavo bene, ma dentro ero molto estroverso. E mia madre non me le risparmiava: “Così non va – mi ripeteva tra le lacrime -. Ma, se ti correggerai, potrai essere la consolazione di tante persone”. La parola “consolazione” me la sono portata nel cuore fino a diventare missionario della Consolata».
Racconta la tua storia missionaria.
«Sono entrato dai missionari della Consolata nel 1954, a Biadene (Tv), con la clausola “ma io non voglio diventare prete”. Con il trascorrere degli anni ho mutato idea, ma senza alcun “lavaggio del cervello”.
Nel 1964 emisi i voti di povertà, castità e obbedienza, e nel 1970 fui ordinato prete a Falzé.
Dal ’64 al ’71 studiai filosofia e teologia a Roma. Nel 1968, mentre studiavo teologia alla Gregoriana, venni espulso dall’università, perché avevo organizzato uno sciopero contro “i metodi di insegnamento”. Però l’espulsione non mi fu mai comunicata ufficialmente. Così potei terminare gli studi e conseguire la licenza in teologia.
Nel 1973 eccomi in Tanzania, anche per… “sbollire le mie idee calde”. Ma nel ’76 venni chiamato a Torino per redigere la rivista Missioni Consolata, dopo la laurea in Scienze Politiche. Vi restai fino al 2002. Fra i miei amici giornalisti, uno campeggia in modo speciale: padre Benedetto Bellesi, deceduto nel 2014.
Quando nel 2005 divenni parroco a Maria Regina delle Missioni (Torino), mi dissi: “Vecchio mio, ormai il cerchio della tua vita si chiude”. Sennonché nel 2010 padre Stefano Camerlengo, all’epoca vice superiore generale, mi disse: “Vuoi tornare in Tanzania?”.
Così fu. Ma con timore e tremore, perché in Tanzania ritornavo dopo 35 anni di assenza e con 68 estati sulla groppa».
Due parole sul Tanzania in cui ti trovi oggi.
«Contrariamente a quanto si riteneva negli anni 70-80, il Tanzania non è affatto un paese povero. Le risorse del suolo (prodotti agricoli) e del sottosuolo (minerali) sono ingenti. Per non parlare dell’‘oro blu’ dei laghi Victoria e Tanganyika. Né si scordi che il paese è il più accattivante giardino zoologico del mondo, con i parchi di Serengeti, Selous, Ruaha.
Ma… guai se “scorni” i rinoceronti, per ricavare afrodisiaci, o mozzi le zanne degli elefanti per farne chincaglie!
È mai possibile che il Tanzania nel 2005, secondo Environmental Investigation Agency, contasse 142mila elefanti, mentre oggi sono 50mila? Ne massacrano 30 al giorno.
Inoltre c’è il problema mastodontico della corruzione».
E le sfide missionarie?
«La sfida più acuta è culturale. È la sfida per cui un africano segue sia la religione tradizionale (paganesimo) sia la religione cristiana. Il Secondo Sinodo dei Vescovi africani, del 2009, parla di “una doppia affiliazione” religiosa (cfr. Africa’s Commitment, 93).
Il cardinale Polycarp Pengo, di Dar Es Salaam, mi disse: molti cristiani vivono secondo “la fede di un tempo”, non la fede cristiana. Spesso, in una malattia, numerosi fedeli lasciano da parte il Dio di Gesù Cristo per rivolgersi al “guaritore tradizionale” ed anche allo stregone.
Le conseguenze diventano criminali quando, per accrescere la propria ricchezza, si strappano gli arti degli albini, uccidendoli. Dal 2000 a oggi si contano 153 aggressioni, con 76 assassinii. Fra i sopravvissuti, 34 si ritrovano gravemente mutilati. Gli albini uccisi aumentano in occasione di eventi quali le elezioni nazionali, essendo considerati da alcuni “vittime propiziatorie”. È una piaga tipicamente tanzaniana».
Che lavoro stai svolgendo oggi?
«Manco farlo apposta, in Tanzania sono ritornato a fare il giornalista nella rivista in lingua swahili Enendeni (Andate). È una rivista modesta, però missionaria, che intende rompere le barriere tribali, culturali e religiose. Enendeni è uno dei prodotti del Consolata Mission Centre di Bunju, a 35 chilometri da Dar Es Salaam, dove risiedo con padre Dawit Sendabo, etiope, e padre Giuseppe Inverardi, ex superiore generale. Bunju è un centro di formazione e di spiritualità, pensato soprattutto per giovani, catechisti e religiosi. Ma è pure aperto a gruppi che si impegnano nel microcredito, nel rispetto dei diritti umani, in cui non mancano credenti protestanti e musulmani.
Mi piace operare nel campo della formazione culturale e religiosa. È uno dei capisaldi di sempre dei missionari della Consolata, fin dalla Conferenza di Murang’a (Kenya, 1904), che ha reso beata anche suor Irene Stefani».
Qual è la difficoltà maggiore che incontri?
«Quella di sentirmi “diverso”, nonostante lo sforzo di inculturazione. Nel 1973, missionario trentenne in Tanzania, lessi un articolo: I’m a stranger in my father’s house (sono uno straniero nella casa di mio padre). È questo il cruccio di tutti i giorni».
Puoi raccontare un episodio significativo della tua vita missionaria?
«Gli episodi sono tanti. L’ultimo è di pochi giorni fa. Un uomo venne a confessarsi. Trasse dalla tasca un foglio e lesse una lunga serie di peccatacci. Dopo un istante d’imbarazzo dissi: “Amico, ora sei pulito e…”. Non terminai la frase, perché il peccatore pentito incominciò a singhiozzare. Singhiozzi per una sofferenza psicologica repressa e per una liberazione attesa da 10 anni. Quando gli misi una mano sulla spalla sussurrandogli “va’ in pace”, piangevo anch’io».
Ai giovani dei nostri centri missionari quale slogan proporresti?
«Ragazzi, non lasciatevi prendere per i fondelli da nessuno: né da Twitter, né da Facebook, né da nulla.
Non è un’espressione mia, bensì di san Paolo, che diceva a Timoteo: “Nessuno disprezzi la tua giovane età” (1 Tm 4, 12)».
Luca Lorusso
di Luca Lorusso
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