Padre Renzo Meneghini, missionario della Consolata di S. Giorio di Susa (Torino), da 18 anni lavora in Etiopia, a Gambo, come missionario e responsabile dell’ospedale. Una vocazione nata sotto il segno dei lebbrosi. I malati di lebbra sono ancora oggi una delle sue «preoccupazioni» più impellenti.
«Quando avevo 17 anni, in parrocchia a San Giorio di Susa ero incaricato dei film. Un giorno ho visto Molokai, un film su padre Damiano, il quale aveva speso tutta la sua vita per i lebbrosi, fino a morire di lebbra egli stesso. Vedendo quell’esempio, ho pensato che potevo fare anche io qualcosa. A quel tempo lavoravo, poi sono partito per il militare, e al ritorno, dopo qualche mese di lavoro sono entrato in contatto con i Missionari della Consolata.
Ho iniziato il seminario a Varallo Sesia nell’ottobre 1966. Nel 1973 ero alla Certosa di Pesio per il noviziato. Finito il noviziato sono andato a Londra. Nel 1978 sono stato ordinato. Poi sono tornato a Londra fino al 1985. Ho fatto 5 anni in Colombia. Nel 1990 sono rientrato in Italia. Dopo la beatificazione del fondatore sono tornato a Londra per altri 4 anni. L’ultima tappa è stata l’Etiopia, dove lavoro tutt’ora.
Dopo molti anni sono andato a lavorare proprio in un posto dove c’erano i lebbrosi.
Nella missione di Gambo ci occupiamo anche di loro. Nell’ospedale c’è un reparto di lebbrosi. Fuori c’è un villaggio per i lebbrosi. Poi c’è un secondo villaggio più ampio che raccoglie sia lebbrosi che non. Bisogna aiutarli in tutto perché non hanno di che vivere. La casa. Il cibo. L’aiuto per i figli che vanno a scuola. Fino alla terza media vanno lì a Gambo. Ma le scuole più alte sono fuori e costringono i ragazzi a cercare casa…
La missione aiuta la popolazione in tutto questo.
Fintanto che arrivano gli aiuti, noi riusciamo ad aiutare».
Perché hai deciso di diventare missionario della Consolata?
«Per combinazione un amico mi ha indirizzato a padre Caffaratto che si occupava dei laici per mandarli in missione. Io non sapevo che lui fosse della Consolata. Ho parlato con lui, e lui mi ha indirizzato al superiore regionale di quel tempo: Igino Lumetti. Sono andato a Varallo Sesia per visitare il seminario. Lì ho trovato un bel gruppo di giovani. E qualcosa mi ha detto: “Mah, prova!”».
Puoi dire due parole sull’Etiopia? Quali sono le sue sfide missionarie principali?
«Io sono sempre stato a Gambo, da quando sono arrivato in Etiopia, perché sono stato assegnato all’amministrazione dell’ospedale. È un lavoro molto impegnativo che richiede molta pazienza, molto amore per le persone che soffrono di più. La cosa più faticosa è vedere tutta questa gente che arriva per chiedere. Molte persone non hanno niente. Molti lebbrosi che sono venuti all’ospedale per le cure non sono poi tornati a casa loro dopo la guarigione. Molti non se la sono sentita di tornare a casa allontanandosi dall’ospedale. Alcuni non sono più stati accettati a casa. Queste sono le persone che hanno più bisogno. È un ritornello quotidiano: «Aiutami». E questa è una cosa che fa soffrire molto: quando non puoi farlo! Poi aiutiamo anche i pazienti dell’ospedale. Le cure non sono costose, ma non sono nemmeno completamente gratuite. E molte persone non riescono a pagare. Allora la missione aiuta anche loro».
Sull’Etiopia puoi dirci qualcosa?
«Gli etiopi non hanno un buon ricordo degli italiani, però sanno che noi siamo lì per aiutare. Per le relazioni con le altre religioni andiamo avanti bene. Sia con i musulmani, che con la chiesa etiope, che con i gruppi pentecostali ci rispettiamo. Ogni tanto ci ritroviamo. Non facciamo grande dialogo, però ci aiutiamo a vicenda. Anche per gli aiuti non guardiamo alle differenze etniche o religiose: chi ha bisogno ha bisogno».
Qual è la difficoltà più grande che incontri? E qual è la soddisfazione più grande?
«La difficoltà più grande che incontro è quella di venire incontro a tutti quelli che hanno bisogno. È una difficoltà tremenda che ci lascia sempre tristi. La soddisfazione più grande è quella di vedere gli studenti prendere il diploma e venire da noi per ringraziare e portare magari anche un piccolo regalino».
Puoi raccontare un episodio significativo della tua vita missionaria?
«In Colombia, a Solano, c’era una vecchietta cieca che veniva ogni tanto a messa al mattino, e quando non poteva venire lei, andavamo noi a trovarla a casa. Quando andavo, faceva di tutto per preparare il caffè ogni volta. Si chiamava Ines. Siccome era piccolina, la chiamavamo Inesita. Mi è rimasto nel cuore il suo modo di fare: il suo modo di ringraziare, di pregare, e anche il suo modo di offrirmi il caffè».
Quali sono, secondo te, le grandi sfide della missione del futuro?
«La grande sfida per me è quella di riuscire a entrare nel cuore di tutti quelli che vivono nella missione, per poter essere veramente una famiglia. Accettare l’altro, ed essere capaci di farsi accettare dall’altro».
Che cosa possiamo offrire al mondo come Missionari della Consolata?
«La parola stessa “Consolata” esprime già qualcosa, no? Noi dovremmo essere portatori di consolazione. Quella che il mondo non dà. Quella che solamente il missionario pronto e disposto a riceverla attraverso la preghiera e il contatto con il Signore, può donare. Portare la consolazione nel mondo intero, nelle famiglie, nel singolo. Consolazione. Belle cose da dire, ma metterle in pratica non è facile.
Ci suggerisci uno slogan per i giovani che si avvicinano ai nostri centri missionari? Che frase proporresti, e perché?
Non abbiate paura di essere chiamati per una vita di servizio, di donazione.
Luca Lorusso
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Luca Lorusso
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