Paolo cambia tutte le carte in tavola della sua identità.
L’incontro con Cristo lo induce a divenire altro da sé. Allo stesso modo egli invita le nuove comunità di credenti a fare altrettanto: lasciare la loro vecchia identità per abbracciare quella nuova che elimina distinzioni etniche, sociali, di genere.
L’apostolo Paolo ha offerto alla Chiesa innumerevoli contributi per la vita cristiana di tutte le generazioni. Dopo la sua esperienza lungo la via di Damasco, ha dovuto, di necessità, rivedere le sue convinzioni di Ebreo. Ben versato nelle tradizioni dei padri, fine conoscitore e, quale fariseo, stretto osservante della legge mosaica, come egli stesso afferma nella lettera ai Galati: «Io superai nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1,14), e nella lettera ai Filippesi: «Quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge» (3,6); Paolo ha dovuto operare un cambio di rotta e reinterpretare il suo sistema di credenze alla luce dell’incontro avuto con Cristo.
«Maledetto colui che pendeva dalla croce»
Sia per lui, prima della conversione, che per i suoi coetanei, il nuovo movimento che faceva capo a Gesù di Nazaret era costituito da impostori: per loro un Messia crocifisso era un’assurdità perché, secondo il libro del Deuteronomio «maledetto era colui che pendeva dalla croce» (21,23, citato in Gal 3,13). Di conseguenza la blasfema pretesa di quanti credevano che Gesù fosse il Messia, doveva essere estirpata dalla società.
Alla luce della sua esperienza mistico-spirituale Paolo ha operato un riadattamento delle sue credenze giudaiche, una revisione radicale della sua percezione di Gesù di Nazaret. In ultima analisi, ha compreso che Gesù di Nazaret, ucciso in croce, era, di fatto, il Cristo e da Dio era stato risuscitato ed esaltato. Ha compreso che Dio, attraverso Gesù, crocifisso e risorto, offriva la sua salvezza a tutti, sia ai Giudei che ai Gentili.
Non vi è alcun dubbio che l’esperienza di Damasco ha generato un Paolo totalmente rinnovato. Egli non era più il persecutore dei seguaci dell’uomo di Nazaret, ma il protagonista dello sviluppo della loro dottrina. Colui che era zelante per le tradizioni dei padri, ora consumava la sua vita per la salvezza di tutti i pagani. Egli aveva finalmente accettato che Cristo era il Messia inviato dal Padre. E soprattutto aveva compreso che l’ostacolo insormontabile della croce costituiva in realtà la vera sapienza di Dio, manifestata in Cristo. Aveva anche finalmente accettato che la salvezza definitiva non era riservata al popolo ebreo, ma, attraverso il Cristo, Dio l’aveva estesa a tutte le nazioni della terra.
Salvezza veramente universale
Alcuni testi paolini illustrano come la salvezza definitiva è veramente universale: «Infatti non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti quelli che lo invocano» (Rom 10,12. Ancora) «Tutti voi, infatti, siete figli di Dio, per la fede in Gesù Cristo, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28).
A questo punto sorgono alcune domande. Cosa è rimasto in Paolo di ciò che era prima della sua conversione? Come ha egli riadattato il suo modo di pensare? Cosa significa per lui «essere in Cristo» ed «essere una nuova creatura»?
La risposta a queste domande non è molto semplice perché lo stesso Paolo non sempre chiarisce bene il suo pensiero al riguardo. Quello che, tuttavia, appare molto chiaro è che Cristo guida la sua vita al punto che egli può affermare senza esitazione: «Sono stato crocifisso con Cristo, non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Il problema, dunque, va risolto nella linea di un’esperienza di Cristo totalizzante. Nella sua esposizione teologico-spirituale, Paolo non conosce una via di mezzo. Egli sostiene che ognuno di noi è governato o dalla ‘carne’ o dallo ‘Spirito’. Uno o appartiene al ‘Cristo’ oppure si trova sotto il ‘potere del peccato’. Di conseguenza quelli che credono, e cioè, si sono appropriati degli effetti benefici dell’azione redentrice del Cristo, finiscono per essere «in Cristo», per appartenergli ed essere membra del suo corpo. Ognuna di queste polarità rappresenta una struttura di esistenza nella quale uno partecipa, nella quale l’esistenza di ognuno è determinata in quanto ognuno dei partecipanti, per definizione, è aperto e recettivo di tale struttura.
Da una struttura a un’altra
Quindi il vangelo che Paolo predica è una esortazione a passare da una struttura a un’altra, dalla sfera del ‘peccato’ o della ‘legge’ o della ‘carne’, alla sfera della ‘vita’, di ‘Cristo’, dello ‘Spirito’. In un contesto in cui convivono diversi gruppi etnici si richiede che uno debba passare da una cultura a un’altra, da una tradizione a un’altra, e quest’altra cultura è quella di Cristo.
Tornando quindi alle domande già formulate in precedenza e cioè cosa rimane della specificità originaria in Paolo dopo la sua conversione, dobbiamo guardare attentamente al suo concetto di «trasferenza». La strategia missionaria di Paolo, come appare dal libro degli Atti degli Apostoli, ebbe a che fare con un vasto ventaglio di etnie diverse che vivevano nell’area dell’Asia Minore. In tale regione vivevano gli abitanti della Misia, Bitinia, Licaonia, Cappadocia, Cilicia, Ponto e Galazia.
Dalla Lettera ai Romani apprendiamo che le comunità paoline erano formate sia di Giudei che di Gentili (vedi 9,24). Non è di certo difficile immaginare quanto sia stato impegnativo per lui presentarsi a popoli di culture, tradizioni, costumi diversi dai suoi. Per lui, che era fiero delle sue origini, come appare nella lettera ai Filippesi: «Circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, fariseo quanto alla legge» (3,5), doveva essere stato impegnativo operare una «trasferenza». Tuttavia, Paolo considera tutti questi privilegi una «perdita», «una spazzatura». Egli ne da’ anche il motivo: «A causa della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù» (Fil 3,8).
Una nuova prospettiva
D’ora in poi la sua preoccupazione non è tanto di far diventare i Gentili Giudei o i Giudei Gentili, ma di unirli in una nuova prospettiva di fede e in un nuovo tipo di relazioni comunitarie. Con questa operazione Paolo non sta solamente eliminando le barriere sociali tra i Giudei e i Gentili, ma sta dicendo ai nuovi convertiti a Cristo che essi costituiscono un popolo nuovo, una nuova etnia. Non sta proponendo di essere uniti in Cristo o presentando la creazione di una comunità che accetta altri gruppi etnici. Egli sta affermando che i nuovi seguaci di Cristo sono una nuova e diversa etnia e che la loro identità deve essere diversa dalla precedente.
Paolo sostiene l’idea di una nuova identità etnica quando nella lettera ai Galati afferma che il battesimo elimina le differenze di nazionalità, le differenze sociali e le differenze di sesso (cf. Gal 3,28). Coloro che si accostano al battesimo devono prendere coscienza che tra loro ci sono certamente queste divisioni, ma saranno eliminate proprio dal battesimo. Dopo il battesimo si deve vivere insieme per formare un unico corpo di Cristo.
Antonio Magnante
di Antonio Magnante
Antonio Magnante
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