Presentazione di una delle ramificazioni più recenti e vivaci – e forse più superficialmente conosciute – della galassia protestante.
In questo volume dedicato al poliedrico movimento pentecostale si parla di:
• Origini del fatto religioso quantitativamente più rilevante del Novecento;
• Né chiesa né «denominazione» protestante, ma un’esperienza pluriforme;
• Capacità del pentecostalismo di globalizzarsi;
• Post-secolarizzazione, che non è un ritorno alla religiosità premoderna;
• Un fenomeno tra millenarismo e politicizzazione;
• Frammentazione e spinte verso un «quarto cristianesimo».
Autore: Naso Paolo
Insegna Scienza politica e coordina il Master in Religioni e mediazione culturale presso "La Sapienza" di Roma; insegna anche presso la Facoltà pentecostale di Scienze religiose di Aversa (Ce). È stato visiting professor alla Wake Forest University e al Davidson College (North Carolina). Giornalista, collabora alle riviste "Jesus" e "Limes".
anno: 2013
formato: 12×21
pagg. 160
euro 12,00
INDICE
Introduzione, 9
Il secolo pentecostale.
Premesse, origini, sviluppi, 19
La globalizzazione pentecostale, 49
Dalla spiritualità ultramondana al fondamentalismo intramondano, 67
Il "caso" italiano, 105
Miracoli, guarigione, prosperità, 129
Una proposta per la società post-secolare, 147
Bibliografia essenziale, 158
PRESENTAZIONE
Qualche anno fa Harvey Cox, uno dei più acuti osservatori del movimento pentecostale, ha provato a indicare le grandi tendenze della religiosità del XXI secolo. In un ragionamento sospeso tra analisi e profezia, questo famoso teologo e sociologo di Harvard affermò che «all’inizio del nuovo millennio tre elementi caratterizzano il profilo spirituale del mondo, e tutti delineano le traiettorie degli anni a venire. Il primo è l’imprevisto risorgere della religione, nella sfera pubblica come in quella privata in tutto il globo. Il secondo è che il fondamentalismo, la disgrazia del XX secolo, sta morendo. Il terzo e il più importante benché spesso inosservato, è il profondo cambiamento della elementare natura della religiosità».
Nel quadro degli obiettivi e dei limiti di questo volume, vogliamo sottolineare soprattutto il terzo elemento che Cox suggerisce, quello attinente al «cambiamento della elementare natura della religiosità»: ipotizziamo infatti che il pentecostalismo disponga di un potenziale spirituale, espressivo e organizzativo in grado di interpretare al meglio un simile «profondo cambiamento». È la forza di questo potenziale che impone tale corrente religiosa all’attenzione di teologi e di leader delle varie religioni, di chi analizza i processi sociali e quelli politici, di giornalisti e di semplici osservatori delle dinamiche culturali contemporanee: è il «caso» pentecostale.
Argomentiamo la nostra ipotesi di lavoro con tre considerazioni principali. La prima è che lo spirito pentecostale soffia costantemente da oltre un secolo, aggregando centinaia di milioni di persone attorno a una particolare modalità di vivere la fede cristiana. Tutto ciò accade in contesti religiosi storicamente aperti e pluralisti quali ad esempio gli Stati Uniti, così come – e qui si coglie un elemento originale e distintivo – in quelli maggiormente caratterizzati dal «monopolio» di una particolare confessione religiosa. Che sorga nella megalopoli nigeriana o nel barrio messicano, tra i grattacieli sudcoreani o nella periferia di una grande città del Sud Italia, ogni chiesa pentecostale rappresenta il terminale di una corrente spirituale che, più di altre, è cresciuta per tutto il Novecento e mostra ancora un significativo potenziale di espansione.
Ragioneremo più avanti di dati – tema sempre rischioso e complesso – ma non vi è dubbio che, dai primi fenomeni carismatici di oltre un secolo fa ad oggi, il pentecostalismo abbia rappresentato il fatto religioso quantitativamente più rilevante: esploso oltre cento anni fa in famosi revival negli Usa, nel Galles, in India, in Corea, in Cile, questo movimento ha sensibilmente modificato il profilo confessionale dell’America Latina e continua a crescere sia in Asia che in Africa. Siamo di fronte, insomma, a una religione globale che in pochi decenni ha sconvolto le appartenenze tradizionali e ha dato un potente scossone al mondo cristiano nel suo complesso.
La seconda considerazione è di ordine qualitativo e consiste nella particolare modalità in cui il pentecostalismo si esprime. Prima ancora che una «denominazione», e ben lontano dall’essere una «chiesa», suggerisce un approccio strutturalmente informale e fluido: per dirla con Walter Hollenweger – colui che negli anni Settanta ha condotto i primi studi scientifici sul pentecostalismo – «parlare di dottrina» è alquanto problematico. «Ciò che unisce le chiese pentecostali – sottolinea – non è una dottrina ma un’esperienza che si può interpretare e sostanziare in molti modi diversi».
Siamo molto distanti, quindi, dal primato delle formulazioni dogmatiche, dalla rigidità degli apparati ecclesiastici e dalla omologazione delle forme liturgiche fissate da altre tradizioni; fatti salvi alcuni principi costitutivi come la centralità dell’azione dello Spirito, il riconoscimento dei doni carismatici e la personale accettazione di Gesù come Signore e Salvatore espressa nel battesimo degli adulti, quello pentecostale è un arcipelago composto da isole molto diverse, talvolta prive di collegamenti con le altre e quindi autonome e del tutto indipendenti. In altri casi esistono invece ponti più o meno consistenti che collegano alcune isole, dando vita a quelle «famiglie denominazionali» alle quali più spesso si fa riferimento: le Assemblee di Dio, la Chiesa apostolica, le chiese Elim e così via.
Ma alcune isole dispongono di collegamenti anche con le grandi mainlands del protestantesimo, del cattolicesimo e persino dell’ortodossia. È su questi ponti che si sviluppano complessi processi di scambio e di reciproca contaminazione che danno vita a forme elastiche di cristianesimo «pentecostalizzato». Croce e delizia di ciò che definiamo pentecostalismo – con un singolare che ci appare forzato – è insomma la sua intrinseca frammentazione in sottoinsiemi insulari isolati se non contrapposti: la pur necessaria definizione di un set di principi teologici, ecclesiologici ed etici universalmente riconosciuto dalle diverse componenti dell’arcipelago pentecostale risulta un esercizio arduo e comunque denso di precisazioni e distinguo. Su temi come l’escatologia, la consacrazione delle donne al ministero pastorale e la teologia del miracolo esistono scuole – e soprattutto pratiche – diverse e distinte: e così capita che in alcune isole pentecostali una donna profetizzi e guidi una comunità mentre in altre debba presentarsi con il capo coperto; che in una chiesa africana si benedicano oggetti di uso comune per proteggerli dall’influsso degli spiriti mentre in un’altra si tuoni contro questa e altre pratiche «idolatriche».
D’altra parte è proprio il carattere modellabile e quindi adattabile a diversi contesti culturali a garantire a questa fede un grande potenziale di diffusione e di radicamento in contesti anche molto diversi tra loro. Da questo punto di vista appaiono del tutto riduttive quelle letture che di volta in volta riconducono la crescita pentecostale all’egemonia politica e culturale degli Stati Uniti, al proselitismo aggressivo delle missioni occidentali, alla funzione alienante della religione di cui questa fede sarebbe efficacissima interprete. Se questi elementi hanno avuto un fondamento – in alcuni tempi e in ben delimitati contesti – non cancellano il fatto che la crescita pentecostale avviene, almeno in parte, a discapito delle forme religiose più tradizionali e pertanto costituisce la risposta a una domanda di senso che evidentemente altre agenzie – spirituali ma anche secolari – non riescono a soddisfare.
Da qui la terza considerazione sulla rilevanza del «caso pentecostale», connessa a ciò che, come chiariremo più avanti, può definirsi post-secolarizzazione. Il tema è molto ampio e rischioso perché, semplificando, può lasciar intendere che, superata l’età della secolarizzazione in cui principi e comportamenti religiosi hanno subito una consistente relativizzazione, si torna al tempo delle antiche appartenenze e pratiche di fede. Senza pretendere di entrare nel merito di una questione così complessa, alla quale autori come Casanova, Berger, Taylor e lo stesso Habermas hanno dedicato pagine molto importanti, l’ipotesi interpretativa alla quale ci riferiremo è piuttosto un’altra: la post-secolarizzazione non è un ritorno alla società pre-secolarizzata, bensì un nuovo diffuso orientamento che riporta la religione in spazi più centrali della scena pubblica. Ma lo fa secondo modalità nuove e attuali che, per approssimazione, possiamo definire postmoderne. L’immagine è ormai ripetitiva e frusta, eppure resta efficace: anche per la religiosità della post-secolarizzazione può valere la metafora della liquidità, ovvero del credere in forme fluide e cangianti, espansive e porose. «La mentalità postmoderna – afferma Bauman – è più tollerante (dal momento che è più consapevole della sua debolezza) di quella moderna che l’ha preceduta, e la critica rinuncia alla tendenza di proporre definizioni concettuali, tanto più che esse nascondono più di quello che rivelano e menomano e offuscano ciò che invece pretendono di chiarificare e raddrizzare». Gli indici statistici ci dicono, infatti, che si crede di più e che in generale le religioni godono di una credibilità e di una salute migliore di quanto non accadesse alcuni decenni fa, quando l’orizzonte del senso sembrava risiedere, piuttosto, nelle ideologie politiche e nei sistemi di pensiero laici.
La causa remota di questa inversione di tendenza sta, per dirla con Peter Berger, nel fatto che tanta gente trova insopportabile il tempo di incertezza che stiamo vivendo e pertanto «ogni movimento, non solo religioso, che promette di garantire o rinnovare una certezza trova un mercato di fronte a sé». In questa prospettiva è chiaro che il pentecostalismo con la sua forza espressiva – parlare in lingue, fiducia in un miracolo che può cambiare la propria vita, leadership carismatica – dispone di molte e acuminate frecce nella propria faretra.
Ma chi pensa di vivere il sogno della post-secolarizzazione, ovvero di un recupero della spiritualità individuale e di un ritorno della religione sulla scena pubblica, rischia di svegliarsi con un incubo: se da decenni, infatti, fondamentalismi, settarismi, neo-integralismi costituiscono elementi non trascurabili della scena religiosa, peraltro capaci di un rilevante impatto politico, oggi appaiono socialmente rilevanti comportamenti religiosi eterodossi, sincretici, eticamente e dogmaticamente individualizzati. Anche in Italia si può andare a messa e frequentare un centro di meditazione buddhista, dirsi cattolico e costruire una famiglia «di fatto», definirsi «credente senza chiesa» o, come molti «atei devoti», rivendicare il proprio legame con una tradizione religiosa senza che questo significhi confessare alcuna fede. Nel calderone della post-secolarizzazione troviamo, insomma, elementi diversi e incongruenti che determinano un inedito pluralismo non solo quantitativo, legato cioè alla presenza di diversi attori e di diverse proposte religiose, ma anche qualitativo, cioè determinato dalla incongruità di queste ultime. È ciò che, riferendosi in particolare alla situazione italiana, Enzo Pace chiama efficacemente «credere nel relativo», ovvero l’adesione a una fede e a una verità che «vale sin tanto quanto appare valida alla coscienza individuale». Il soggetto che pratica una religione in questa particolare forma individualizzata è quindi un «credente autonomo» che «non si colloca fuori dal perimetro della fede né tanto meno contro la chiesa (di nascita). Egli si è modernamente messo in proprio in campo morale… Alcuni aspetti del mondo della vita sono diventati modernamente province autonome del sentire… In esse gli individui tendono ad agire come se la chiesa non ci fosse». In un mercato religioso che tende ad aprirsi e ad allargarsi, il pentecostalismo si presenta con una offerta consistente e apprezzabile: non propone una nuova dogmatica ma piuttosto una nuova vita, non presuppone delle conoscenze ma invita a un’esperienza, non si rivolge soltanto ai buoni e ai santi ma riesce a coinvolgere uomini e donne che si sono persi nel loro cammino esistenziale. Queste ragioni che sono state alla base della sua espansione nel secolo alle nostre spalle in buona parte persistono ancora oggi e possono farci prevedere un’ulteriore crescita.
Nelle pagine che seguono, oltre a richiamare le origini storiche di questo movimento spirituale e a ricostruire la mappa della sua eccezionale articolazione e frammentazione interna, cercheremo di capire quale sia la sua dinamica sociale: più di altre comunità di fede, infatti, l’espansione pentecostale ha un carattere globale che non è riconducibile alle sole dinamiche migratorie. Ci interrogheremo quindi su quali siano i punti di forza di questa esperienza spirituale e come le varie denominazioni pentecostali si siano attrezzate alla sfida dell’evangelizzazione nel XXI secolo.
Cercheremo anche di definire la collocazione del pentecostalismo nell’ecumene: nato all’interno di alcune correnti evangeliche ancorate alla famiglia del protestantesimo, negli anni, ha preso in toto o quanto meno in alcune sue espressioni, una strada propria che – ci pare – lo spinge a distinguersi e in qualche caso ad allontanarsi dal mainstream della Riforma.
Registriamo infatti due tendenze, peraltro difficilmente compatibili tra loro: da una parte quello che potremmo definire l’«ecumenismo pentecostale», ovvero una corrente interconfessionale che, attraversando il protestantesimo, il cattolicesimo e per certi aspetti anche l’ortodossia, abbatte antichi recinti confessionali; dall’altra, però, ravvisiamo anche l’allontanamento di alcune correnti pentecostali dall’alveo storico del protestantesimo. Nel complesso si tratta di processi ancora incompiuti e forse reversibili ma che danno la misura di una pluralità di orientamenti che è difficile non leggere come frammentazione e di una dialettica che in più di qualche caso assume le forme di reciproca scomunica.
Un fenomeno globale come il pentecostalismo, infine, ha una dimensione politica. Come vedremo, il movimento nasce con una intenzione teologica esplicitamente apolitica: convintamente millenaristi – nelle variegate modalità in cui si intende l’imminente ritorno del Messia – i pentecostali della prima ora guardavano al Regno celeste piuttosto che a quello degli uomini e vivevano la politica come una tentazione mondana.
Poco più di cento anni dopo, questa distanza dalle dinamiche civili appare minoritaria se non residuale, e dagli Usa alla Corea, dal Brasile alla Nigeria, possiamo rilevare una rilevante politicizzazione di leader e di chiese pentecostali. Nelle pagine seguenti ci proponiamo quindi di analizzare questa nuova dinamica, convinti che essa costituisca uno dei campi di indagine più utili a capire le rotte e gli approdi di questa comunità di credenti.
Concludendo: in un mercato religioso non solo sempre più aperto ma anche particolarmente affollato, il pentecostalismo occupa uno spazio importante e crescente. Più di altre comunità di fede, dispone di contenuti, linguaggio, forme espressive in grado di rispondere alla diffusa domanda di senso e di spiritualità di questi tempi post-secolari. Dedicandoci allo studio di questo movimento, abbiamo cercato di capirne la forza, individuarne le criticità, immaginarne gli sviluppi. Frequentando chiese locali, parlando con pastori e anziani, rivisitando la letteratura sul pentecostalismo, ci si è aperto non solo un avvincente percorso di ricerca sotto il profilo della sociologia religiosa e dei processi culturali, ma anche un ambito di ragionamento di ordine spirituale ed ecclesiale. Se ancora ce ne fosse stato bisogno, abbiamo così verificato quanto il pentecostalismo si configuri come un elemento di quel «Fattore R» che, come suggerisce il titolo della collana che ospita questo volume, incide con forza crescente nelle società di oggi.
di EMI – Editrice Missionaria Italiana
emi.it
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