Nuova edizione ampliata.
«È un invito alla lentezza. Andiamo troppo in fretta. Bisogna avere la possibilità di fermarsi, guardare le cose belle, meditare, pensare a noi, guardare i tramonti. Ma chiedete a qualcuno che cammina per strada: "Quando ti sei fermato per un tramonto l’ultima volta?". È una domanda molto importante!». Queste parole che vergò Tonino Guerra nel terminare la lettura di questo libro danno al libro-culto di Zavalloni il suo vero orizzonte.
La sue riflessioni, concrete e ricche di buon senso, nascono dall’esperienza scolastica e sono rivolte ai docenti. In realtà travalicano le aule e i plessi per imporsi come un insegnamento di vita adatto agli uomini e alle donne del nostro tempo. Per porgere, come suggerisce Fiorella Farinelli nella prefazione, «un punto di vista e un’aspirazione essenziali per lavorare a quel cambiamento antropologico di cui l’umanità ha un evidente e urgente bisogno».
In appendice, il testo del suo Manifesto dei diritti naturali di bimbi e bimbe.
Disegni in bianco e nero dell’autore. Nel 2011 il libro è stato edito anche in Brasile (Adonis) e in Spagna (Editorial Grao).
Autore: Zavalloni Gianfranco
(1957-2012) – È stato dirigente scolastico dopo sedici anni di insegnamento nella scuola dell’infanzia; dal 2008 è stato responsabile dell’Ufficio scuola del Consolato d’Italia di Belo Horizonte (Brasile). Romagnolo, di famiglia contadina, è stato animatore dell’Ecoistituto di Cesena, mentre si è dedicato anche al disegno e alla pittura nonché al teatro di burattini. Collaboratore della rivista "Cem Mondialità", per l’Emi ha curato e illustrato diversi libri.
anno: 2013
formato: 14×21
pagg. 192
euro 12,00
Presentazione
di Fiorella Farinelli
Più lenti, più profondi, più dolci. «Viene alla memoria il film La gita scolastica di Pupi Avati, dove una classe di quinta liceo, per premio, vince una gita scolastica a piedi, di più giorni, da Bologna a Firenze. Nel film nemmeno appare Firenze. Tutto è centrato sull’andare, sulla magia del cammino, sugli imprevisti incontri, sulle relazioni tra i camminatori». L’importanza del cammino, dunque, non dell’arrivo. Del tempo del cammino, che deve essere lento, non solo per accettare il passo di chi è più debole, ma perché inseguendo curiosità e emozioni ognuno possa inoltrarsi, scoprire altre piste, deviare, tornare indietro, scambiare pensieri e sentimenti, costruire relazioni. E domani, proprio per aver compiuto un cammino di questo tipo, possa non dimenticare quello che ha imparato.
Il segreto dell’apprendimento scolastico, per Gianfranco Zavalloni, è in gran parte qui. Non il tragitto dritto, lineare, veloce, solitario della freccia scagliata a colpire uno specifico bersaglio, piuttosto lo sviluppo delle capacità di tutti di aderire a quello che si sta facendo e costruendo, di andare a fondo scoprendone i significati e inventandosene di propri. Una scuola lenta, una «pedagogia della lumaca». Andare a piedi, usare le mani, esplorare, costruire, sbagliare e imparare dagli errori, aiutarsi reciprocamente. «Qualsiasi apprendimento, per essere significativo, deve passare attraverso tre esperienze: il gioco, strumento ideale per apprendere e rispettare le regole, e per maturare nelle relazioni sociali; lo studio (l’impegno), per acquisire le componenti culturali della simbolizzazione e della comunicazione; il lavoro manuale, per educare il corpo all’uso di tutti i suoi sensi e per imparare a vivere nel mondo con responsabilità».
C’è, in questo splendido testo di Zavalloni, un repertorio ricchissimo di indicazioni e di spunti per una didattica efficace nelle scuole dell’infanzia e dell’obbligo scolastico. Ci sono le «strategie educative di rallentamento», basate sull’idea di Rousseau che «perdere tempo è guadagnare tempo»: perdere tempo ad ascoltare, a parlare insieme; perderlo per rispettare tutti, per condividere le scelte, per giocare, camminare, crescere. Perdere, per un’altra idea di educazione, per un’altra società rispetto a quella, basata sul successo, sul guadagno, sul competere, sul vincere, che oggi sta assediando e danneggiando la scuola. Poi c’è anche un grappolo di consigli per «buttare un sasso nello stagno della fretta» (immagine intrigante: la velocità vista come acqua ferma). L’involucro dei consigli sembra nostalgia della scuola di una volta, prima della plastica, della fotocopiatrice, di internet, ma la sostanza è un’altra. Recuperare la stilografi ca (perfino il pennino e il calamaio) e la scrittura in corsivo, perché la «bella scrittura» è capacità di concentrazione, autocontrollo, sviluppo della «mano che pensa», educazione all’ordine e alla bellezza. Disegnare anziché fotocopiare, per non uccidere la creatività, l’originalità, l’unicità. Creare da soli tavole, schemi e organigrammi, perché «solo così gli apprendimenti saranno davvero nostri». Scrivere lettere vere, per reimparare, nell’età del tempo senza attesa, la capacità di aspettare. Bandire il copia-e-incolla – non i motori di ricerca – perché la ricerca non è assemblare, ma cercare le fonti attendibili, scegliere le informazioni che servono, darsi un punto di vista per organizzare, elaborare, concludere.
All’indomani della prima edizione della Lumaca c’è stato chi non ha voluto capire, e ha snobbato come anti-moderno un progetto di scuola che guarda invece al futuro. Dietro la lumaca e la sua pedagogia non c’è infatti la scuola non inclusiva, selettiva e autoritaria dei nostri anni Cinquanta, ma il meglio del pensiero educativo dei tempi moderni. Il radicalismo innovativo di Mario Lodi e del Movimento di cooperazione educativa. Le riflessioni e l’opera di Loris Malaguzzi. La severità dell’impegno civile e educativo di Barbiana. La teoria delle intelligenze multiple di Gardner. L’approccio psicopedagogico di Clotilde Pontecorvo. Gli studi sulla psicomotricità. Le analisi sulla televisione, la multimedialità, internet e i loro effetti sull’apprendimento. Poi il vivo dell’esperienza diretta, i sedici anni di insegnamento nella scuola per l’infanzia, le difficoltà e le scommesse di un dirigente scolastico alle prese con le ansie da prestazione di tanti genitori, con le parole – concorrenza, competizione, profitto scolastico, standard, test di efficacia «che appartengono al super veloce ed efficiente mondo economico, non a quello scolastico», – con gli insegnanti che non vogliono mettersi in testa di dover essere «un corpo smilitarizzato» («piuttosto che bocciare preferisco sbocciare»). Decisiva, tra l’altro, l’esperienza giovanile di educatore scout. L’insistenza sul lavoro come responsabilità e educazione civile, l’espressione aperta del conflitto per educare alla nonviolenza, la cooperazione come abito etico e di partecipazione democratica. «La scuola è un concentrato di esperienze, una grande avventura che può essere vissuta come un viaggio, un libro da scrivere insieme, uno spettacolo teatrale, un sogno da colorare, un orto da coltivare».
Già, gli orti. La didattica degli orti. «Coltivare un orto a scuola significa imparare a rallentare, un’esperienza altamente educativa. Seminare e coltivare sono attività che mettono a frutto le abilità manuali, le conoscenze scientifiche, lo sviluppo del pensiero logico-interdipendente. Ma significa soprattutto attenzione ai tempi dell’attesa, pazienza, maturazione di capacità revisionale. Lavorare la terra aiuta a riflettere sulle storie locali e familiari… a unire teoria e pratica, cioè il pensare, il ragionare con il progettare e il fare».
Qui si rivela, oltre all’educatore, l’ecologista e il pacifista. Viene in luce l’influenza del pensiero di quell’Alex Langer, costruttore di ponti contro le differenze che si fanno guerra, di cui si cita il motto «più lenti, più profondi, più dolci»; la familiarità con le culture che contrastano il dominio dello sfruttamento senza limiti della natura, l’adesione passiva al consumismo, al profitto, alla violenza, alle disuguaglianze. La lentezza, come ben diceva Christoph Baker nella prefazione a una precedente edizione della Lumaca, è, insieme ai concetti di leggerezza e di fragilità, una nozione sovversiva per il materialismo pesante e devastatore delle nostre società. Un punto di vista e un’aspirazione essenziali per lavorare a quel cambiamento antropologico di cui l’umanità ha un evidente e urgente bisogno. La cura della lentezza, l’accoglienza della fragilità, l’idea di un’umanità che torni ad essere leggera per il pianeta in cui vive, sono elementi costitutivi di una cultura amica degli uomini e della natura, attenta alla sostenibilità dello sviluppo, capace di opporsi alla violenza dello sfruttamento e del consumo indiscriminato di risorse limitate, di individuare un cammino nuovo, in cui imparare – lentamente – nuovi modi di vivere. Come nelle teorie della decrescita, anche qui non si tratta di tornare a un passato che non può più esserci, né tanto meno di mitizzarlo. Ma è all’ordine del giorno – come negarlo? – la necessità di rallentare l’accelerazione di una versione pericolosa della modernità, di allontanare da noi, dai nostri figli, dal pianeta che non siamo più capaci di rispettare, l’incubo di un punto catastrofico di non ritorno.
Gianfranco Zavalloni se ne è andato troppo presto. Restano, e gliene siamo grati, le sue parole, la vitalità della sua esperienza, la fiducia nell’educazione, la convinzione che cambiare sia possibile.
Introduzione
di Gianfranco Zavalloni
In questi tempi è di gran moda, nelle case di campagna riabitate dai cittadini, avere un ulivo secolare in giardino. Peccato che dove oggi si costruiscono ville, un tempo non c’erano uliveti. Se si piantassero piccole pianticelle di ulivo ci vorrebbero anni per avere una bella pianta. Allora esistono ditte specializzate che espiantano ulivi secolari e li ripiantano anche a pochi metri dalla porta di casa. Nessuno ha più il tempo di attendere? Oggi si vuole tutto velocemente. Grazie alla televisione prima, e alle reti telematiche ora, è di gran voga la somministrazione di notizie «in tempo reale», «in diretta». Si è cioè convinti di potere di più se si è «in rete» con tutto il mondo attraverso un computer, un telefono o un monitor. A cosa serve tutto questo? Spesso non si sa. Si sa solo di essere collegati con tutto il mondo. Forse si ottiene un grande senso di sicurezza, di protezione, rispetto alla sensazione di «esser soli». Si vive con il mito incalzante del tempo reale e si sta perdendo la capacità di saper attendere. Chi ha più il tempo di aspettare l’arrivo di una lettera? Oggi è possibile alzare la cornetta e sentire la persona con cui si vuol comunicare in pochi secondi. Che vantaggio c’è nello scrivere delle lettere? Se tutto va per il giusto verso c’è da attendere una settimana. Molto meglio il telefono, la posta elettronica, la chat. Alcuni anni fa, quando ancora non esisteva internet, Jeremy Rifkin ci ricordava che «…la razza umana si è basata, nel corso della storia, su quattro dispositivi fondamentali di assegnazione del tempo: i rituali vitali, i calendari astronomici, le campane e gli orari, e ora i programmi dei calcolatori. Con l’introduzione di ogni nuovo dispositivo, la razza umana si è staccata sempre più dai ritmi biologici e fisici del pianeta. Siamo passati da una stretta partecipazione ai ritmi della natura all’isolamento pressoché totale dai ritmi della terra…».
Siamo nell’epoca del tempo senza attesa. Questo ha delle ripercussioni incredibili sul nostro modo di vivere. Non abbiamo più il tempo di attendere, non sappiamo partecipare a un incontro senza essere disturbati dal cellulare, vogliamo «tutto e subito» in tempo reale. Le teorie psicologiche sono concordi nel pensare che una delle differenze fra i bambini e gli adulti risieda nel fatto che i bambini vivono secondo il principio di piacere («tutto e subito»), mentre gli adulti vivono secondo il principio di realtà (saper fare sacrifici oggi per godere poi domani). Mi sembra che oggi gli adulti, grazie anche alla società del consumismo esasperato, vivano esattamente come i bambini secondo le modalità del «voglio tutto e subito». Sapremo ritrovare tempi naturali? Sapremo attendere una lettera? Sapremo piantare una ghianda o una castagna sapendo che saranno i nostri pronipoti a vederne la maestosità secolare? Sapremo aspettare? Si tratta di intraprendere un nuovo itinerario educativo. Genitori, insegnanti e tutti coloro che ruotano attorno al mondo della scuola, sono stimolati dalle suggestioni offerte dalla pedagogia della lumaca e possono ricominciare a riflettere sul senso del tempo educativo e sulla necessità di adottare strategie didattiche di rallentamento, per una scuola lenta e nonviolenta.
di EMI – Editrice Missionaria Italiana
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