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Cristo in Europa, una feconda estraneità

Il cardinale di Vienna individua tra Europa e cristianesimo un rapporto paradossale: il Vecchio Continente ha sempre meno credenti ma al contempo desidera che i cristiani siano sempre più fedeli al vangelo.
Il cristianesimo può offrire all’Europa la libertà da ogni condizionamento; la fede può ricevere dalla cultura laica l’appello ad una credibilità oggi quanto mai urgente.

Autore: Schönborn Christoph
(1945), cardinale, teologo e religioso domenicano, è arcivescovo di Vienna dal 1995. Esperto di storia del cristianesimo orientale, ha studiato alla Sorbona di Parigi e insegnato a Friburgo (Svizzera). È stato membro della Commissione teologica internazionale.

Contenuti:
«Un corpo estraneo, ma anche una radice: questa è la stimolante posizione del cristianesimo nell’Europa secolarizzata. La cultura europea è spesso critica nei confronti del cristianesimo e ciò è da ritenersi positivo. L’Europa potrebbe avere bisogno della sana inquietudine della voce profetica della Parola, ma anche il cristianesimo ha bisogno che l’Europa ponga a sua volta questioni critiche.»

Prefazione di Franco Cardini.

anno: 2013
formato: 10,5×16,5
pagg. 64
euro 5,00

INDICE

Introduzione, di Franco Cardini, 5

Cristianesimo: presenza estranea o fondamento dell’Occidente?, 19
Un corpo estraneo anche nell’antichità?, 27
Il Medioevo, età buia?, 39
Modernità: l’altra visione dell’Europa, 49
Il cristianesimo, radice ma corpo estraneo, 53

Note, 57

INTRODUZIONE
di Franco Cardini

Il primo confronto che a molti salirà alla mente, accingendosi ad affrontare le lucide e dense pagine di questo bel saggio del cardinale Schönborn, sarà quello con uno scritto di oltre due secoli fa, Christenheit oder Europa di Friedrich von Hardenberg, conosciuto come Novalis, che nell’Europa sconvolta dalla Rivoluzione auspicava un continente rinnovato dalla riscoperta dell’universalismo cristiano medievale. E molti avranno ben presente anche il «classico» dubbio, generatore di tanti equivoci, che ha più volte colto chi di esso conosceva il titolo ma non aveva letto il contenuto. La congiunzione tedesca oder, difatti, come la o italiana, può aver il valore sinonimico di «ovvero» o quello disgiuntivo di «oppure»: e, a seconda delle interpretazioni, i significati risultano opposti.
Questo giochetto di prestigio semantico-lessicale si adatta in modo illuminante a quello che in apparenza è il paradosso dell’assunto sostenuto da Schönborn: alla questione se il cristianesimo sia il fondamento dell’Europa (se cioè l’Europa abbia radici cristiane) o se rispetto ad essa rappresenti una presenza estranea, «la mia risposta sarà – egli ci avverte – che il cristianesimo è entrambe le cose!».
Risposta sconcertante, che può addirittura sembrare ambigua: ma che non è di poco momento in quanto ci rimanda a un’impasse che ha bloccato sul nascere l’elaborazione di una Carta europea. E, in ultima analisi, al problema sotteso al gioco di significati proposto dal titolo del Novalis. Europa aperta ai valori della trascendenza e dell’universalismo, ovvero Cristianità; versus Europa moderna, secolarizzata e immanentista, oppure Cristianità.
In effetti, il cristianesimo si è affermato come «corpo estraneo» in quel mondo antico nel quale affondano alcune delle radici dell’Europa moderna (che ha senza dubbio anche, ma non solo radici cristiane); e non meno senza dubbio è estraneo all’Europa moderna che pure, allontanatasene, non lo ha dimenticato e non può farne a meno.
Esaminiamo i caratteri di questa duplice estraneità. Il cristianesimo s’impose come elemento originariamente alieno rispetto al mondo ellenistico-romano vivificato dalla presenza ordinatrice dell’impero e unificato dalla possibilità che qualunque culto potesse comunque accedere al principio della sacralità del potere imperiale: possibilità negata soltanto dal monoteismo trascendente cristiano, ereditato dall’ebraismo. Ma, una volta superato tale ostacolo, prima con la legalizzazione del culto cristiano attraverso l’editto di Galerio del 311 formalizzato da Costantino e Licinio nel 313, quindi addirittura con la cristianizzazione dell’impero, quel mondo ellenistico-romano divenne una Christianitas.
Quella Cristianità si andò polarizzando, e più tardi gradualmente scindendo (fino allo «scisma d’Oriente» del 1054) in una occidentale e una orientale seguendo grosso modo le frontiere geopolitico-amministrativo-culturali già codificate da Teodosio alla fine del IV secolo.
La Christenheit di Novalis si riferiva all’Europa «occidentale», la cui colonna vertebrale era il mondo latino-germanico (cui erano in varia natura connessi elementi celti, slavi, baltici, illirici e perfino arabi, berberi ed ebraici). Se nell’impero d’Oriente, divenuto quel che impropriamente definiamo «bizantino», si mantennero intatti potere autocratico imperiale e struttura collegiale dei vertici gerarchici delle chiese «greche» e «orientali», nella pars Occidentis la loro rifondazione tra la fine dell’VIII e i primi dell’XI secolo, avvenuta principalmente grazie ai vescovi di Roma, aprì il lungo conflitto tra regnum e sacerdotium durante il quale le strutture politiche, socioeconomiche e culturali si modificarono gradualmente ma profondamente attraverso una complessa dinamica di differenti autonomie: in politica e nel diritto, accompagnando e sostituendo l’universalismo imperiale con le monarchie feudali e quindi gli stati assoluti (cioè «sciolti»), che si dichiararono difatti superiorem non recognoscentes; in economia, nell’arte, nella cultura proclamando il successivo affrancamento della filosofia, dell’arte e della scienza dalla teologia e quindi da Dio.
Qui sta la chiave storica che può aiutarci a comprendere a fondo il sottile, complesso e fortissimo pensiero di Schönborn. Il punto non è soltanto che il cristianesimo sia «per molti un elemento estraneo in un mondo determinato dalla ragione, dall’Illuminismo e dai princìpi democratici»; bensì che la società euro-occidentale, a partire dal XIII secolo, ha prima gradualmente, quindi – in parte con l’Umanesimo, con più forza grazie alla Riforma protestante e alle nuove teorie economiche che permettevano la nascita del capitalismo moderno – più decisamente, fondato quella che noi chiamiamo la Modernità.
Essa è senza dubbio figlia dell’Europa: ma, elaboratasi in un tempo nel quale l’Europa usciva dai propri confini ed estendeva su tutto il mondo il proprio potere obbligandolo a ristrutturare i suoi assetti civili e sociali secondo i propri interessi (si sarebbe così avuta la «economia-mondo», con la relativa logica dello «scambio asimmetrico» che sta alla base dello sfruttamento coloniale e dello straordinario sviluppo scientifico, tecnologico ed economico dei secoli XV-XX), si è dinamicamente configurata come il lungo tempo – la «lunga durata» braudeliana – della lenta ma irreversibile secolarizzazione.
Fondata sull’individualismo, sull’antropocentrismo, sulla «volontà di potenza» e sul rovesciamento dei rapporti tra produzione e consumo – quindi sulla progressiva cancellazione del «senso del limite» e sulla convinzione prometeica e faustiana dell’onnipotenza umana –, la Modernità ha risposto al problema della presenza di Dio nella realtà cosmica e nella storia aggirandolo: il punto non è stato, per la cultura europea occidentale, affermare o negare l’esistenza di Dio, cosa che Immanuel Kant ha dichiarato di per sé impossibile, bensì vivere, agire, produrre, guadagnare, scoprire, inventare e conquistare etsi Deus non daretur. Ecco come il mondo occidentale moderno ha potuto mantenersi a lungo illudendo e illudendosi di esser popolato di cristiani, che tali fino a un certo punto sono formalmente rimasti; ma, rifiutando di mantenere il cristianesimo come fulcro anche filosofico, economico, civile, sociale, etico e perfino estetico della sua vita, non ha più potuto né voluto presentarsi come una società cristiana. Ha rifiutato di continuar ad essere una Cristianità. Il punto d’arrivo di questo iter è perfettamente espresso dalla Costituzione dell’Unione Sovietica del 1936, la più democratica del mondo, voluta e in parte scritta di proprio pugno da Stalin: in uno stato ufficialmente ateo, mentre era in atto una feroce persecuzione antireligiosa, la Carta dichiarava che «la religione è un fatto strettamente privato del cittadino». Non era soltanto una ripugnante ipocrisia né soltanto conseguenza del materialismo marx-leninista: era una logica conseguenza del Libero Esame delle Scritture e della riduzione protestante del rapporto del credente con Dio a fatto «personale». Max Weber sosteneva che il capitalismo moderno è figlio della rivoluzione calvinista; ma figlia del delirio di onnipotenza antropocentrica, già maturato nel Rinascimento, è la Modernità nel suo complesso, che si esprime nell’idolatria dell’Ego, nel primato di economia e tecnologia, nella sete di profitto e di sfruttamento delle forze umane e della natura, nell’ideologia del progresso.
L’Europa occidentale, cattolica e protestante ma avviata alla secolarizzazione, è la madre dell’Occidente moderno (meglio sarebbe chiamarlo «Occidente-Modernità») che si è, almeno fino al Sette-Ottocento, identificato con essa: finché, nel corso dei secoli XIX-XX, non ha dovuto condividere prima, cedere quindi, l’egemonia al suo figlio diretto (forse di dubbia legittimità), gli Stati Uniti d’America. Schönborn ha ragione quando constata che oggi l’Europa appare «l’area più secolarizzata del mondo», e che ciò sta conducendo a risultati d’una gravità sconvolgente, a cominciare dalla sua crisi demografica. L’autorevole citazione del rabbino Jonathan Sacks è al riguardo esemplare: «L’Europa sta morendo», ha sentenziato Sacks, in quanto prigioniera della cultura «del consumismo e della gratificazione istantanea», che ha condotto al crollo dell’indice di natalità. Continua Sacks, ed è una considerazione geniale: «Stiamo subendo l’equivalente morale del cambiamento climatico e nessuno ne sta parlando». Difatti, «dove, nell’attuale cultura europea, troviamo spazio per il concetto del sacrificio compiuto per amore delle generazioni mai nate?».
Ed è anche vero che la società europea – ammalata di «cristianofobia» secondo il pensatore ebreo americano Joseph Weiler – appare di gran lunga più scristianizzata degli Stati Uniti, come è dimostrato da pur ambigui e pericolosi fenomeni quali il fondamentalismo delle sètte protestanti e il movimento teoconservative. Senza dubbio, a nessuno passerà mai per la testa che sull’euro si possa stampare il motto In God we trust. Ma non va dimenticato nemmeno che il radicalismo calvinista dei discendenti dei Pilgrim Fathers è quello che ha giustificato il fatto che negrieri mercanti di carne umana del deep South abbiano motivato fino a tempi recentissimi, Bibbia alla mano, il loro disumano sfruttamento degli schiavi d’origine africana e il genocidio sistematico dei native Americans. L’odioso razzismo europeo, fondato sui presupposti illuministici e sulla scienza positivista sino al folle progetto politico-antropologico nazista, ha se non altro avuto sempre l’onestà di proclamarsi anticristiano. Insieme con questi caratteri aberranti di un cristianesimo malinteso e degenerato, è negli Stati Uniti che radicalismo individualista e pensiero liberistico uniti hanno determinato una società nella quale la tutela dei ceti più fragili è sempre stata negletta se non addirittura avversata (magari in quanto giudicata «comunista»). Dinanzi al modello liberista statunitense, del resto ormai entrato come ben sappiamo in crisi – Barack Obama ha avuto il coraggio di ammetterlo –, l’Europa continua nel suo complesso, con contraddizioni, a restar fedele al suo modello solidaristico.
D’altro canto l’Europa moderna, che nasce dalla distruzione della Cristianità medievale e si qualifica dalle paci di Westfalia del 1648 – come ben ha visto un grande spirito europeo, Carl Schmitt – attraverso la costruzione di uno ius publicum europaeum sulla base delle differenze, è passata attraverso una lunga catena di tentativi di suicidio: le guerre di religione, lo scellerato principio del cuius regio eius religio fonte inesauribile di odio (si pensi solo al dramma delle deportazioni di interi popoli per adeguare la nuova geografia continentale), infine il delirio nazionalistico.
Naturalmente, l’Europa-Occidente, l’Europa-Modernità (quindi l’Occidente-Modernità) non mancò di ammantare la sua volontà di conquista del mondo di nobilissimi ideali. Ciò avvenne attraverso una lunga serie di manipolazioni: la pretesa di «portare il Cristo ai popoli che non lo conoscevano» (tanto falsa che sovente i missionari pagarono il coraggio con il quale difendevano i nativi dai conquistatori, come mostra la storia delle reducciones gesuitiche del Guaranì); poi, quella secondo la quale la civiltà moderna era la figlia diretta dell’antichità greca e romana, che condusse non solo a negare la frattura tra antichità e Medioevo occidentale (e a ipertrofizzare invece quella tra Medioevo e Rinascimento, descritto come il totale recupero della civiltà classica dopo i «secoli bui»), ma addirittura a trascrivere anacronisticamente la gigantesca opera di sintesi interculturale di Alessandro Magno in termini di espansione della cultura ellenica e quindi dell’«Occidente», come Pierre Briant spiega nel suo Alexandre des Lumières (Gallimard, 2013). È anche contro questa lunga serie di forme di brigantaggio intellettuale che si deve reagire, rileggendo l’intera storia dell’Europa e dell’immagine che essa è andata costruendo di se stessa, se vogliamo reagire alle menzogne, molte delle quali si sono generazionalmente radicate nella nostra cultura fino a venir considerate verità incontrovertibili.
Ed eccoci al paradosso estremo di questo libro il cui assunto è dichiarato con molta lealtà, appunto paradossale, cristianesimo come «corpo estraneo» e al tempo stesso «fondamento» d’Europa. Il reazionario impero asburgico risulta in effetti una forza di avanguardia, battuto da forze «progressiste» gli esiti della vittoria delle quali ci hanno condotto molto più lontano rispetto ad obiettivi che oggi appaiono necessari di quel che presumibilmente sarebbe accaduto se esso avesse potuto continuare a esprimere le potenzialità della sua dinamica storica. Non a caso, l’impero asburgico non solo non aveva mai cessato di porre la fede cristiana alla base concettuale della sua compagine, ma – dopo la separazione della casa d’Austria da quella di Spagna – nella sua compagine austriaca non aveva mai tentato l’avventura coloniale.
Ora, poiché la storia non ha un senso immanente, le progettazione umana del futuro assume un valore primario. È necessario concepire, e nella misura dell’umanamente possibile sforzarsi di programmare, un’Europa che, nata cristiana nel «Medioevo cristiano», torni ad essere quel ch’è stata prima dell’apostasia moderna. Secondo Zygmunt Bauman la «Modernità solida» – quella dell’individualismo, della secolarizzazione, del progressismo, dell’ideologia del profitto e dello sfruttamento – è ormai finita, per dar luogo alla «Modernità liquida», che possiamo anche definire Postmodernità, nella quale assistiamo a una contestazione e a una progressiva modifica, se non a un rovesciamento, di tali valori. È pertanto legittima la progettazione di una «rivoluzione postmoderna».
Un personaggio dei Demoni di Dostoevskij, Shatov, pur condividendo gli ideali rivoluzionari dei suoi compagni di lotta, ama tanto sinceramente il popolo da rendersi conto di come la fede sia l’essenza identitaria e unificante del popolo russo: «Dio è la personalità sintetica di tutto un popolo dal principio sino alla sua fine». Ateo per convinzione ideologica, Shatov è credente sul piano della volontà e della speranza: «Io crederò in Dio».
L’Europa, che ha mosso i primi passi verso l’unità politica all’ombra dell’ambiguità, riuscirà a realizzarsi solo ritrovando se stessa, risolvendo cioè nel suo futuro la contraddizione tra l’essere «corpo estraneo» e l’esser «fondamento» della sua stessa cultura, della sua stessa storia. Questa sarà la sua rivoluzione. Se, al pari di Shatov, capirà che nella fede, là dov’è profondamente radicato il suo passato e che nel presente sembra perduta, c’è anche il suo futuro.

Intervista a "Corriere della Sera"

di EMI – Editrice Missionaria Italiana

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