Slow page dei Missionari della consolata

 Diario di un obiettore. Strapparsi le stellette nel ’68 

 

Il Tribunale militare di Torino condanna un carrista per essersi strappato dalla divisa mostrine e stellette.

"Ho rifiutato di proseguire il servizio militare dopo aver inutilmente cercato di sostituirlo con un servizio civile in Italia o all’estero", spiega il caporale Bellettato. "A tale rifiuto mi spinge la mia coscienza di cattolico. Anche come maestro devo esprimere il mio dissenso dalla vita militare, che è violenza legalizzata e istituzionalizzata".
Autore: Bellettato Enzo
Dopo un periodo come insegnante e dirigente scolastico nel Polesine, si è dedicato alla divulgazione dell’astronomia, con l’istituzione del Planetario civico di Rovigo. Collabora con associazioni di storia locale. Membro del Movimento nonviolento di Aldo Capitini all’epoca della sua obiezione di coscienza, ha poi partecipato alle campagne di obiezione alle spese militari. Negli anni Novanta ha contribuito alla formazione della Consulta per la pace del Comune di Rovigo. 
 
Contenuti:
Questo libro è il diario – pieno di brio – che il "disobbediente" ha tenuto dal primo giorno di naia al congedo, passando per il carcere di Peschiera.
Il caso Bellettato avrà anche un’inattesa ripercussione: la sentenza della Corte costituzionale del 1970, per la quale la propaganda all’obiezione non è più "istigazione a delinquere".
La legge per l’obiezione di coscienza verrà promulgata nel 1972.
 
Prefazione di Mao Valpiana
 
anno: 2012
formato: 14×21
pagg. 256
euro 14,00
 
INDICE
Prefazione, di Mao Valpiana, 9
Introduzione, 25
 
Diario, 29
Benvenuto nella naia, 31
Ci si abitua?, 62
L’obiezione, 125
L’isolamento, 132
La prigione, 146
Il processo, 157
Ancora naia, 164
È finita?, 200
 
Appendice, 201
1. Denuncia per disobbedienza del caporale Bellettato, 203
2. Dichiarazione di obiezione di coscienza. Comunicato stampa, 207
3. Ho scelto la pace. Autodifesa presentata al processo, 208
4. Autodifesa alla Commissione di disciplina interna delle Forze Armate, 221
5. Sentenza di condanna, 223
6. Corte costituzionale, 226
7. La sentenza della Corte nel ricordo dell’avv. Rampulla, 229
8. Glossario, 231
 
Note, 249  
 
PRESENTAZIONE
Questo è un libro sull’obiezione di coscienza e sul servizio militare obbligatorio contro il quale l’obiezione si è rivolta nell’intento di costruire concrete alternative per la risoluzione delle controversie internazionali, visto anche che la nostra Costituzione ripudia la guerra come mezzo adatto a tale scopo.
È un libro scritto tra il 1967 e il 1968, quando mancavano ancora cinque anni all’approvazione della tanto richiesta legge (n. 772/1972) che riconoscerà il diritto all’obiezione di coscienza: troppo lunga l’attesa per chi aveva ormai in mano la cartolina-precetto dopo aver usufruito di tutti i possibili rinvii.
E in quegli anni l’obiezione di coscienza era reato penale. O meglio, l’obiezione non era prevista dalla legge neanche come reato, forse perché il legislatore militare non poteva pensare che alcuno ardisse, per banali motivi di coscienza, ergersi contro la millenaria struttura militare che da sempre (spesso all’insegna della prepotenza e del sopruso, e sempre, al di là delle cattive o buone ragioni, all’insegna della violenza) ha scritto la storia dei popoli. Perciò il codice penale militare non prevede il reato di obiezione di coscienza con una pena ben definita e certa, riservando agli obiettori qualche altro reatuccio che assomigli un po’ a quell’atto di rifiuto (di solito disobbedienza: art. 173 del Codice penale militare di pace), ma senza recepirne le vere motivazioni di fondo. Fino a un anno di galera, ma poi l’obbligo militare rimaneva inalterato, rinnovandosi i processi alla fine di ogni nuova condanna, fino alla scadenza anagrafica dell’obbligo militare: 45 anni.
Mentre stavo nel carcere militare di Peschiera ho conosciuto un ultraquarantenne, ma non ancora quarantacinquenne, profugo istriano, ramingo per il mondo e beccato in territorio italiano in una delle sue peregrinazioni, chiamato a rendere penalmente conto del suo debito con la patria italiana. In realtà, nel caso degli obiettori, dopo alcune condanne, si inventava la seminfermità mentale (e per quei giudici forse questo non doveva sembrare proprio un escamotage) o una qualche malattia fisica e li si lasciava finalmente in "pace".
Fin dai primi anni Sessanta, a seguito di alcune letture (Gandhi, Mazzolari, Capitini…) e della frequentazione di quelli che allora si chiamavano "gruppi spontanei" di impegno sia politico e sociale sia di spiritualità, ed essendo infine coinvolto nelle attività del Movimento Nonviolento, ero arrivato alla decisione di obiettare, anche se non mi attirava molto l’idea di una lunga carcerazione. Nello stesso tempo mi stupiva sempre di più (a quel tempo ero cattolico) l’ingiustificabile assenza di testimonianze religiose di massa contro le strutture militari, tanto che i casi di cronaca che ancora si ricordano (Giuseppe Gozzini, padre Balducci, Fabrizio Fabbrini, don Milani…) spiccano proprio per la loro eccezionalità e per le polemiche che hanno suscitato all’interno della stessa Chiesa, mentre a me sembrava il minimo che potesse essere espresso da chiunque si dichiarasse religioso. Desiderando pertanto evitare una troppo lunga carcerazione, e volendo anche sperimentare una nuova modalità di obiezione, più morbida, ma proprio per questo più facilmente proponibile, nella speranza (che poi si rivelerà illusione) di una sua propagazione a macchia d’olio specialmente fra i giovani cattolici (era vivissima la memoria di papa Giovanni, e le parole del Concilio suscitavano ancora speranze e voglia di impegno), decisi di limitarmi a un unico atto di rifiuto accettando, dopo la prima condanna, di affrontare il servizio militare. Qualcosa di simile era stato fatto da Fabrizio Fabbrini che aveva riservato al suo rifiuto l’ultima settimana del servizio militare. L’importante, insomma, era non tacere.
Nei mesi precedenti la mia chiamata di leva era stata approvata la legge Pedini (n. 1033/1966): si poteva ottenere la dispensa dall’obbligo militare prestando un congruo periodo di servizio civile in un paese del terzo mondo. Sarebbe stata una buona soluzione, ma non era ancora stato approvato il regolamento esecutivo che avrebbe reso concretamente operativa la legge. Iniziai perciò il servizio militare riservandomi di chiederne la sospensione non appena fosse stato pubblicato il regolamento e avessi perciò la possibilità di prestare la mia attività non nell’esercito ma in un luogo, vicino o lontano, dove si contribuisse all’affermazione della pace e della giustizia. L’attesa durò alcuni mesi, e quando ebbi finalmente il regolamento in mano mi resi conto che, per vari aspetti sostanziali e procedurali, non avrei mai potuto usufruirne. Così non fu più possibile evitare lo scontro.
Quando, nel 1916, Giacomo Matteotti venne processato per aver pronunciato nel Consiglio provinciale di Rovigo un forte intervento contro la guerra allora in corso, il tribunale che lo condannò ne ricorda, quasi come aggravante, le parole di speranza che lo avevano spinto ad affermare cose così sconvenienti per la situazione storica e politica di allora: "Il dottor Matteotti ha rivendicato a sé il diritto alla più illimitata libertà di parola, considerando che, nei più dei casi, le dottrine giudicate aberrazioni in un’epoca appartengono a verità indiscusse in altra più o meno lontana".
Ed è la stessa speranza che, nonostante tutto, ancora ci può sostenere. 
 

di EMI editrice missionaria italiana

The following two tabs change content below.

emi.it

Ultimi post di emi.it (vedi tutti)

Be the first to comment

Leave a Reply

L'indirizzo email non sarà pubblicato.