A noi occidentali risulta ancora non del tutto noto – forse nei paesi anglosassoni e francofoni se ne sa di più – come gli africani realizzino uno spettacolo teatrale. I suoi contenuti, i suoi connotati spaziali, i suoi specifici apparati scenici.
La drammatizzazione, l’animazione coreografica e la modalità di recitazione di temi diretti e interpretati su un palcoscenico hanno qualcosa che appare distante dal modo di fare teatro tipico del mondo occidentale.
Credere, infatti, che il teatro africano, analogamente a quello europeo, si esprima in una sala buia dove esiste una linea di divisione tra un’area sopraelevata in cui gli attori recitano e una zona sottostante frontale o semicircolare dove gli spettatori assistono alla scena, porta a un malinteso colossale. In Africa il teatro è qualcosa che si può assimilare a una festa, a una cerimonia, a un rituale, a uno spettacolo con forti richiami evocativi, che ha come spazio non tanto il palcoscenico, ma la piazza di un villaggio o un grande ambiente interno comunemente usato dagli anziani per le loro riunioni. Inoltre attori e pubblico costituiscono quasi un tutt’uno, perché a un certo punto della rappresentazione teatrale può accadere che gli spettatori, presi o emotivamente investiti dal senso del dramma rappresentato, partecipino anch’essi attivamente, insieme agli attori, alla recita, in cui spesso e volentieri fungono già da coro.
Il teatro al tempo dei faraoni
Le fonti storiche documentano che proprio in Egitto alcuni attori si esibivano in loro performances artistiche pubbliche davanti al faraone. Il teatro, in Africa, dunque ha origini molto antiche, risalenti all’epoca delle piramidi. E nel corso della storia dell’umanità, esso si è evoluto e differenziato a seconda delle regioni e dei territori in cui era ed è rappresentato. Costituisce, pertanto, un aspetto importante della cultura dell’intrattenimento, nel passato come oggi, nutrito in profondità dalle più ancestrali tradizioni orali e religiose, facenti parte del variegatissimo patrimonio di conoscenze storiche, etniche e sociali proprie di ogni singolo popolo che abita il continente nero.
In base a quanto gli archeologi hanno recepito dalla interpretazione di alcune epigrafi, la cui datazione risalirebbe intorno al 2500 a.C. e oltre, gli antichi egizi usavano esprimersi artisticamente, in occasione di feste e celebrazioni pubbliche, attraverso la narrazione drammatizzata e coreografica di miti e leggende, con l’ausilio di balletti, accompagnamenti musicali e virtuosismi declamatori, aventi molto in comune con quella forma d’arte definita ordinariamente come recitazione teatrale. Alcuni papiri documentano che cosa avveniva «dietro le quinte» di allestimenti scenografici al fine di festeggiare i trenta anni di regno del faraone Sesostris. In queste pergamene sono descritti i dialoghi degli attori, oltre alle indicazioni del «regista» sul loro muoversi e posizionarsi in scena e alle informazioni relative al sottofondo musicale di contorno, nonché all’ingresso dei danzatori e del coro. La stele di Ikhernofret, risalente al 1820 a.C., riporta le annotazioni personali del tesoriere e imbonitore di feste del faraone Sesostris III. Vi si narra come egli stesso facesse la parte dell’«amato figlio di Osiride», durante alcune scene che rappresentavano uno scontro fra divinità.
Il teatro tra gli Yoruba
Il processo di trasposizione teatrale eseguito dagli africani non contemplava, e tuttora non se ne avvale, necessariamente l’utilizzo di testi scritti o copioni. Esso si basava e si basa quasi esclusivamente su una cultura non scritta e un bagaglio di memorie storiche essenzialmente orali. La natura orale e corale dell’espressione mimica drammatica veniva e viene esercitata in modo particolare tramite due canali di trasmissione: la danza e la musica. I protagonisti del palcoscenico africano si rivelano tali inoltre con l’utilizzo della maschera e dei costumi. I temi sviluppati drammaticamente sulla scena avevano una forte attinenza con il mito la religione, la tradizione, la vita stessa del villaggio e del clan, le iniziazioni, il rapporto con la natura e il ciclo delle stagioni. Si ha notizia delle prime compagnie teatrali africane, composte di attori professionisti, nel Cinquecento. Presso gli Yoruba (oggi in Nigeria), per esempio, era noto infatti un gruppo di attori esperti denominato Alarinjo. Erano specializzati nell’ambito di drammi religiosi o a sfondo mitologico.
Arrivano gli europei
Il contatto con la cultura europea, a causa soprattutto della vicinanza dei missionari cattolici o protestanti, comportò, durante il periodo coloniale, un adeguamento degli spettacoli teatrali, in cui partecipavano attivamente artisti africani, a contenuti religiosi di marcata impronta cristiana, biblica. Erano pertanto portati in scena riadattamenti di fatti narrati nel Vecchio e Nuovo Testamento. Queste rappresentazioni teatrali erano eseguite, concedendo maggiore spazio ai dialoghi piuttosto che alla danza, mortificata in quel dato periodo storico. Videro la luce in quel contesto storico dominato dagli europei, opere teatrali caratterizzate da un certo impegno sociale, sia pur legato a costanti tematiche folcloristiche. I temi rappresentati erano infatti attinenti, con un approccio critico non trascurabile, a esperienze di vita comunitaria in cui si denunciava una palese ingiustizia sociale. Un drammaturgo, musicista, attore, impresario teatrale, nonché cineasta, che scrisse opere teatrali di questo genere fu, per esempio, Hubert Ogunde (1916-1990), a cui faceva capo una compagnia teatrale nomade nigeriana, con alle spalle più di 50 opere rappresentate, alcune delle quali censurate per motivi politici, di enorme impatto sociale. Fu il caso di Tiger’s empire o Strike and hunger entrambe del 1946. O di Bread and bullet messa in scena nel 1950. Risale al 1964 una sua commedia di successo di schietta impostazione politica: Yoruba Ronu! (Sveglia, Yoruba!), che fu vietata nelle regioni occidentali della Nigeria. Nonostante le continue vessazioni imposte ai suoi spettacoli, il drammaturgo (e attore dotato di grande carisma sulla scena) portò avanti la sua attività artistica, animato sempre da un forte ideale volto all’impegno e alla denuncia sociale, nell’intento di infondere nei nigeriani una coscienza nazionale, con Otito koru (La verità è amara) e Muritala Mohammed (che narra l’episodio dell’assassinio di un capo di Stato nigeriano). Ebbero dunque spazio in queste rappresentazioni anche la politica e la satira.
Quando in Europa si combatteva la prima guerra mondiale, in Ghana un avvocato, politico e scrittore, William Esuman-Gwia Sekyi, più noto come Kobina Sekyi (1892-1956), realizzò una commedia satirica The Blinkards (1915), in cui prendeva di mira la classe politica del suo paese, tendente all’epoca a rinnegare usi e costumi locali, la tradizione e la cultura indigena, pavoneggiando e scimmiottando aspetti e consuetudini di vita sociale europea, del tutto estranei al patrimonio umanistico e culturale del mondo africano. Nel periodo successivo, relativo alla fase dell’indipendenza, durante gli anni Sessanta e Settanta, ci fu un mutamento radicale nel modo di fare teatro. Si assistette a una mescolanza di usanze folcloristiche indigene e di comportamenti occidentali. Una commistione di componenti culturali eterogenee. Questa miscela di contenuti espressivi e tematici drammatizzati, fra loro quasi opposti, discordanti, se non incompatibili, si è rivelata in un certo senso anche esplosiva, perché ha veicolato denunce sociali e di malcostume politico che ancora oggi fanno capolino, in pieno terzo millennio, nel teatro africano.
I drammaturghi più celebri si annoverano in un ventaglio di personalità della cultura africana molto spiccate: il nigeriano Wole Soyinka (1934), in primis, Robert Serumaga (1939-1981, ugandese, il cui teatro rappresentava aspetti sociali, culturali e rituali del suo paese) e la drammaturga ghanese Efua Sutherland (1924-1996, tra i suoi lavori più conosciuti: Foriwa composto e rappresentato nel 1962, Edufa nel 1967 e The Marriage of Anansewa nel 1975, specialiazzatasi poi in bellissime favole per bambini).
Vale la pena spendere qualche parola in più su Wole Soyinka, noto saggista, poeta e scrittore, drammaturgo di fama, e premio Nobel nel 1986: aveva costituito una sua compagnia teatrale denominata Teatro Orisun nel 1964. Grazie al suo impegno e alla sua passione per il teatro, in Africa e nel resto del mondo il teatro della tradizione nigeriana e la cultura folcloristica Yoruba sono state molto apprezzate. Il drammaturgo nigeriano ha un curriculum che vanta più di venti drammi e commedie. Inoltre ha adattato in un contesto tutto africano – ha insomma africanizzato – l’opera di Euripide Le Baccanti, L’opera da tre soldi di Bertold Brecht e I negri di Jean Genet. I suoi scritti teatrali più pregiati sono stati Il leone e la perla, Pazzi e specialisti, La morte e il cavaliere del Re, Danza della foresta, La strada e Il racconto di Kongi. Le sfide culturali, proposte pure sui palcoscenici da questi autori impegnati, militanti, con alle spalle un bagaglio intellettuale di tutto rispetto, hanno riscosso un certo successo di pubblico, di critica e hanno colpito nel segno: il loro messaggio sociale ha avuto una forte risonanza, anche mondiale. In Sudafrica, inoltre, la collaborazione fra artisti neri e bianchi ha comportato come conseguenza il progressivo e deciso rifiuto dell’aparheid, il cui impatto umano e sociale, anche in teatro ha trovato il modo di esprimersi con notevole consistenza e spessore.
Il mimo
L’arte della recitazione negli africani ha qualcosa di simbiotico con la loro natura più schiettamente umana, risulta istintiva, spontanea, innata. Non c’è bisogno di tecnica o di aver frequentato un’accademia di arte drammatica. Il ritmo, la danza, la musica, il mimo, la capacità d’immedesimarsi in un personaggio ce l’hanno nel sangue, sono iscritti nel loro Dna. I pigmei del Gabon, nell’Africa centrale, per esempio, sono espertissimi nell’arte del mimo. Sanno imitare alla perfezione i versi degli animali o la forma delle piante. Gli anziani tramandano ai più giovani queste loro capacità vocali e mimiche. Non solo. Dimostrano una precisione spinta all’eccesso a riprodurre il minimo dettaglio nel rappresentare, per esempio, la caccia all’elefante.
Le potenzialità espressive che possiedono gli attori africani o chi si esibisce al fine di raffigurare un evento secondo canoni liturgici e rituali specifici, rimanendo fedele e rimandando a saperi tradizionali indigeni, nell’intento di rappresentare, durante una ricorrenza celebrativa, anche con una maschera, un personaggio legato al mito o alla religione in particolare, o ai cicli della natura, o alla vita del villaggio, fanno parte del loro modo e della loro abitudine di osservare e imitare la realtà che li circonda, senza fare ricorso a chissà quali tecniche di recitazione, ma contemplando semplicemente, per esempio, come si muove un antilope, una leonessa o un leopardo, spicca il volo un uccello; od osservando attentamente situazioni di vita quotidiana della comunità o gruppo umano di appartenenza. Questa spiccata tendenza a imitare si manifesta in un particolare ambito artistico, costituito in buona parte – lo ribadiamo – dalla danza, che per gli africani resta la più esplicita espressione artistica, con una connotazione e una valenza teatrali e rievocative davvero stupefacenti.
Tra le danze tradizionali, quelle cosiddette erotiche, costituiscono una forma d’intrattenimento abbastanza comune: tra i pigmei dell’Africa centrale, due gruppi di giovani, maschi da una parte e femmine dall’altra, si trovano uno di fronte all’altro; a un certo punto alcune ragazze si avvicinano ad alcuni ragazzi spingendo con molta forza il pube in avanti. Tale segnale ritmico, espresso nella danza, manifesta l’intenzione della ragazza, che mima esplicitamente un approccio sessuale, di volersi accoppiare a un giovane particolare del villaggio. Si tratta di una rappresentazione coreografica e scenica, ma con un preciso significato umano e sociale che ha un valore preciso all’interno della comunità, in termini di ritualità e rispecchiante specifiche usanze del villaggio. La nozione del sacro e del soprannaturale invade inoltre la percezione che hanno gli africani riguardo alla danza, chiave di codificazione del teatro africano, nelle sue più disparate e profonde potenzialità comunicative.
Il pubblico africano
Più che attori, gli artisti africani sono cantastorie, danzatori, musicisti. E il loro teatro non separa in maniera netta, l’attore dal pubblico; nel teatro africano, infatti, il più delle volte, se non quasi sempre, attori e pubblico s’incontrano, si abbracciano, partecipano insieme, quasi fino a fondersi e compenetrarsi fra loro, sul piano non solo emozionale, al senso del dramma espresso sulla scena, ma anche prendendo possesso letteralmente del ruolo e del personaggio rappresentati, incarnandone movimenti, espressioni, azioni fino a far coincidere chi assiste allo spettacolo con chi lo sta recitando. Le stesse dinamiche verbali non scaturiscono da copioni imparati a memoria, ma si tratta quasi sempre di battute improvvisate volta per volta, che tuttavia registrano fedelmente quanto la tradizione, il mito, la leggenda, la saggezza popolare conservano e svelano anche attraverso la rappresentazione scenica e coreografica.
Se la danza, la musica, prodotta in particolare con strumenti a percussione o tramite il battere delle mani e dei piedi, il mimo connotano nella sua specificità il teatro africano, questi tre aspetti della drammatizzazione si richiamano a usanze lontanissime nel tempo, che però perdurano nei villaggi e nei contesti ambientali in cui gli africani vivono. La rappresentazione scenica dei cicli delle stagioni, delle piogge, dell’imitazione degli animali e delle piante della foresta o della savana, come si è già detto, per esempio, delle iniziazioni, dei riti di passaggio, della nascita, del matrimonio, della morte, del culto degli antenati, del rispetto degli anziani, del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, dell’innamoramento, del rapporto sessuale, del lavoro nei campi, della semina e della raccolta, del pascolo, della caccia, della pesca, di tutti gli aspetti più consueti e ordinari oppure insoliti e sconvolgenti della realtà quotidiana, del rapporto infine con il soprannaturale e il divino, conserva nella loro finzione scenica anche una funzione e uno scopo apotropaico e scaramantico di propiziazione. L’incidenza della nozione del sacro nel teatro africano risulta molto marcata e fa parte delle tradizioni ancestrali e animiste dei clan e dei villaggi.
Non trascurabili, inoltre, nella rappresentazione scenica africana sono l’uso della maschera e l’ornamento. La maschera, in genere, sta a indicare una divinità o un potere esercitato da qualcuno del villaggio. In Costa d’Avorio, per esempio, in un villaggio baulé, alcuni attori, nel bel mezzo di uno spettacolo, intervengono all’improvviso sulla scena indossando una maschera. Musica e danza accompagnano il loro ingresso, in modo molto frenetico. Le maschere sono tre: una bianca, una rossa e una con i tratti molto deformati. Esse rappresentano lo spirito del giorno, lo spirito della sera e lo spirito più temuto della notte con cui gli uomini del villaggio devono confrontarsi fino ad avere partita vinta. Maschere e ornamenti sono dunque attributi e dispositivi codificatori che aiutano l’attore a immedesimarsi nel personaggio, nel ruolo e nella situazione del dramma e spingono altresì chi osserva e ascolta a incorporarsi intimamente nel senso del dramma. Questa profonda fusione che avviene negli spettatori africani e li porta in un certo senso, e non solo metaforico, a salire sul «palcoscenico» insieme con gli attori, prendendo parte attiva al dramma, distingue nettamente il modo di fare teatro in Africa dalle abitudini artistiche occidentali. In Europa, infatti, l’attore mantiene la sua identità professionale nell’interpretare un personaggio o una parte, senza mai perdere la propria soggettività, conservando dunque uno sdoppiamento necessario, che mantiene le distanze fisiche e spaziali sia dalla finzione scenica, sia dal pubblico. Secondo gli usi rappresentativi e scenici africani, al contrario, come tra attore e personaggio, così tra personaggio e pubblico avviene una simbiosi, una fusione, una congiunzione spirituale, una amalgamazione emotiva a livelli profondissimi, un’immedesimazione totali, che raggiungono addirittura lo stato di trance e di possessione. In Costa d’Avorio, per esempio, le donne che danzano tendono a scuotere continuamente e con molta energia la testa dal basso in alto e da destra a sinistra e viceversa. Questo movimento continuo e scomposto del capo porta a uno stato d’intontimento e di lieve trance, e diventa uno stato iniziatico che permette alla donna di esercitare l’arte dell’indovina o di guaritrice.
Al di là di questi requisiti paradigmatici, legati al rito, alle usanze del villaggio, alla curiosa partecipazione del pubblico, al rapporto simbolico e estrinsecamente propiziatorio instaurato dagli attori con i fenomeni della natura e con il soprannaturale, che il teatro africano comporta, è importante sottolinearne il messaggio culturale, l’impegno sociale e l’attivismo politico di cui si fa esplicitamente e organicamente strumento di divulgazione diretta e pubblica, con un efficace ascendente sugli spettatori a livello intellettuale, psicologico, sociologico, politico e mediatico molto marcato.
di Nicola Di Mauro
Nicola Di Mauro
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