Deir Mar Musa. Il nome mi chiamava come una fata morgana, come la nostalgia di qualcosa di antico, qualcosa che avevo dimenticato ma continuava ad agitarsi nel fondo dell’anima. Quella fortezza della fede, arroccata sugli ultimi precipizi del Monte Libano davanti al deserto siriano, era una tappa ineludibile del mio viaggio verso la Terra Santa.
Autore: Paolo Dall’Oglio,
Prefazione di Paolo Rumiz
Editore: Gabrielli, Verona
Anno: 2011
pp. 144
€ 13
Il volume che raccoglie gli articoli del gesuita Paolo Dall’Oglio pubblicati su Popoli dal 2007 a oggi nella rubrica omonima.
Pubblichiamo qui la prefazione affidata a una penna di eccezione, quella dello scrittore Paolo Rumiz: una testimonianza densa di ammirazione verso i cristiani d’Oriente.
Cercavo i cristiani d’Oriente, eppure a parlarmi per primo del monastero retto dal gesuita Paolo Dall’Oglio non era stato un prete ma un musulmano d’Italia. «Vai a vedere – aveva detto – un luogo dove la tua fede ha imparato a convivere con l’islam». E aggiunse parole lusinghiere sulla capacità di quel suo priore molto sui generis di capire il mondo musulmano pur tenendo dritta la barra del cristianesimo in quel difficile avamposto.
Così andai, e già la lunga strada di avvicinamento lungo l’Anatolia fino alle terre alte del Tigri (dove comunità cristiane di lingua aramaica vecchie di quasi due millenni resistevano miracolosamente alla pressione del nazionalismo islamico turco) aveva ribaltato molte delle mie false certezze. Credevo che addentrandomi nelle terre d’Oriente avrei sentito una pressione sempre più forte nei confronti dei miei correligionari, e invece avevo scoperto che i cristiani se la passavano molto meglio nella repubblica islamica di Siria che nella laica Turchia, affiliata alla Nato, e persino nelle terre ex jugoslave del Kosovo, dove personaggi come Paolo Dall’Oglio avrebbero dovuto vivere sotto scorta armata.
VICINI ALLA FONTE
Credevo, prima di prendere quella lunga strada, di allontanarmi dal baricentro, dai punti di riferimento più forti della mia fede, e invece constatavo che proprio allontanandomi da Roma avvertivo la presenza di un messaggio cristiano più limpido, cristallino, sempre più vicino alla sua fonte originaria, e sempre meno disturbato da tentazioni di egemonia e di potere. Era come se mi fosse possibile prendere atto della mia identità e della mia cultura religiosa d’origine solo in terre dove il cristianesimo era decisamente minoritario, se non addirittura perseguitato. Erano passati, non dimentichiamolo, appena quattro anni dall’attentato alle Torri gemelle, e il discorso del conflitto di civiltà era stato semplificato ad arte dai seminatori di zizzania come scontro religioso. Era anche per reagire a questa semplificazione che avevo intrapreso quel viaggio tra i miei cugini d’Oriente, un viaggio che mi portava fatalmente a sconfinare, un giorno sì e uno no, nei territori dell’ebraismo e della fede musulmana.
Una cosa mi aveva profondamente offeso. Proprio coloro che agitavano la bandiera dello scontro con l’islam non riuscivano – arroccandosi su una visione eurocentrica del cristianesimo – a studiare e persino immaginare l’esistenza di comunità cristiane antiche nelle terre dell’Est. Già oltre l’Adriatico iniziava una terra incognita (o ignorata) per gran parte delle gerarchie ecclesiali del mio Paese. I rivoltosi di lingua albanese avevano distrutto un centinaio di chiese in Kosovo, ma dal Vaticano erano arrivati segnali debolissimi di reazione. Non c’era nessuna solidarietà reale con i nostri fratelli ortodossi.
In Cappadocia, terra oggi turca dove ben prima di Maometto era nato uno dei più gloriosi movimenti monastici dell’universo cristiano, avevo visto con scandalo gite parrocchiali organizzate da agenzie di viaggio religiose, nelle quali il cristianesimo turco veniva descritto come cosa antica, archeologia, e non come una presenza recente, che era stata vitale fino all’inizio del Novecento. E che dire dei giornali italiani, che parlavano dei palestinesi e dei musulmani di Terra Santa come se fossero la stessa cosa, come se non esistesse una comunità cristiana antichissima di lingua araba a Gerusalemme e dintorni.
Così, quando in una sera di temporale imminente arrivai al monastero fortificato di Mar Musa, mi ero già reso conto che religiosi da prima linea come Paolo Dall’Oglio si trovavano, con la loro semplice presenza, non soltanto a combattere con le infinite suscettibilità del mondo musulmano, ma anche a scontare sulla loro pelle (con molte eccezioni, s’intende) le incomprensioni e i pregiudizi dei loro referenti d’Occidente. Di queste il priore di Mar Musa non volle mai parlarmi, ma era mia ferma convinzione che esse ci fossero. Era facile essere «scaricati», da quelle parti. Qualche anno dopo ne avrei avuto conferma dalla fretta con cui Roma avrebbe archiviato il caso dello scannamento di un vescovo cattolico e di un prete in Turchia, nelle terre estreme di Trebisonda e Iskenderun. Luoghi dei quali avevo descritto con largo anticipo sui fatti le tensioni anti-cristiane nei miei reportage su Repubblica.
ADDOMESTICARE IL CONFRONTO?
Che ne sapevamo noi in Italia del modo in cui bisognava rapportarsi con i seguaci di Maometto? Poco o niente. Tenere un dialogo oggi è difficilissimo. Dall’Oglio lo scrive bene negli articoli pubblicati in questo libro. Il rischio è di addomesticare il confronto solo «per evitare l’aggressione delle frange più violente e fondamentaliste». Ci sono ecclesiastici che praticano un silenzio diplomatico con l’islam, altri che suscitano confronti mediatici incendiari e provocatori, e altri ancora che si lasciano andare alla facile retorica del dialogo superficiale. Nessuno di questi atteggiamenti va bene. La strada da prendere – stante l’impraticabilità del proselitismo in terra musulmana – è quella di farsi conoscere e soprattutto riconoscere, attivando l’antica dimestichezza dell’islam nei confronti di figure come Issa (Gesù, cui per esempio è dedicato un minareto a Damasco) e Maria (che proprio in Siria è spesso invocata dalle donne musulmane quale dispensatrice di fertilità).
Ebbi la conferma, lì a Mar Musa, che per farsi riconoscere, il cristianesimo aveva anche bisogno di capire come Cristo e i discepoli erano visti dagli altri popoli del Libro. Nel suo ineguagliabile Usage du monde, Nicholas Bouvier racconta del viaggio compiuto negli anni Cinquanta fino al subcontinente indiano. Nella tappa afghana egli narra di aver trovato nel bazar di Kabul una raffigurazione di Gesù che ascendeva al cielo circondato da apostoli armati. Per un musulmano era magari concepibile che un profeta della bontà di Issa accettasse di essere catturato senza difendersi, ma era assolutamente inammissibile che i suoi uomini rinunciassero a difenderlo. Vili, codardi, non avevano reagito. E soprattutto, rinunciando a uccidere dei malvagi, essi avevano favorito la catena del male. La raffigurazione di discepoli armati altro non era che il desiderio dei musulmani di rendere più presentabile il martirio di quel sant’uomo.
Ancora più interessante la visione degli ebrei ortodossi, così come mi era stata vivacemente spiegata da un rabbino gerosolimitano di nascita italiana. Il difetto maggiore di Cristo? Non si era sposato, non aveva figli. Chi non fa figli non è un uomo e non ascolta i comandamenti di Elohim: crescete e moltiplicatevi. E allora, mi disse, come fa a essere dio uno che non è nemmeno uomo? E che dire dei discepoli, questi scioperati perdigiorno che avevano rinunciato alla fatica della terra e del lavoro? Che garanzie di serietà potevano dare questi scapoloni a zonzo capaci di vivere solo alle spalle altrui? Sì, era fondamentale ascoltare storie così, sentire il parere degli «altri» per raccontare la «nostra» identità con maggiore forza e consapevolezza.
LO SGUARDO DEL NAZARENO
Una sera pregammo insieme, in quel monastero che altro non era che la «reception» di un arcipelago di grotte eremitiche sparse nelle rocce circostanti. Risuonarono antiche litanie, sentii la bellezza della preghiera cristiana formulata in lingua araba, e la parole-chiave attorno cui tutto ruotava era «nur», luce. Cantava Paolo Dall’Oglio dentro una chiesa buia, dove la luce, appunto, era solo un raggio che entrava da una feritoia verso occidente. Fu da quel viaggio che cominciai a cercare la mia fede proprio nelle periferie, negli avamposti, nelle trincee di mondi considerati a rischio o nel profondo di Stati marchiati come «canaglia» dalla geopolitica banalizzata dell’Occidente.
Perché ricordavamo tanto Marco Polo e il suo viaggio verso Oriente e nessuno parlava del fatto che un monaco cristiano cinese – nome Rabban Sauma – era stato spedito dal Gran Khan, in quegli stessi anni, per una complicata ambasceria fino in Vaticano e poi alla corte del re di Francia? Perché avevamo perso la percezione del formidabile big bang che aveva portato il messaggio fino in Hindukush e ancora oltre, sulle sponde del Mar Giallo? Ma l’oblio sulla dimensione latitudinale del cristianesimo era niente rispetto a quella longitudinale, che ebbi modo di verificare in due successivi viaggi, uno nella Russia artica e uno (breve ma sufficiente) in Etiopia, con un supplemento di indagine verso il Sudan e le sorgenti del Nilo.
Non era solo la constatazione che il messaggio era arrivato anche lì, ai margini dell’Africa Nera e nelle terre estreme del Mar Glaciale. Era che i simboli che avevo visto nella penombra profumata di ceri delle chiese ortodosse dal Grande Nord erano identici a quelli trovati nelle chiese affollate di Addis Abeba. Non ci potevo credere. Stesso odore d’incenso, stesse croci che sembravano tagliare l’orizzonte come punti cardinali, stesso mormorio di litanie, stesso San Giorgio che taglia il mantello per il povero e uccide il drago che emerge dal profondo, stesso sguardo incommensurabilmente dolce del Nazareno. Era questo che aveva sfondato, duemila anni prima, dal circolo polare all’equatore.
Ad Antiochia – incontrando la mia compagna di viaggio Monika Bulaj – una donna che si era convertita al cristianesimo e subiva per questo non poche ritorsioni aveva spostato una tendina in casa sua e mostrato, dietro, un foglio di giornale illustrato con la raffigurazione di Cristo. Sospirò e spiego perché aveva deciso di seguirlo. «Come fai a non fidarti di uno con un viso simile?», riassunse così il concetto, prima di riempirci il sacco da viaggio di frutta secca e caffè che a lei dovevano essere costati una fortuna.
Paolo Rumiz
Di popoli.info
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