Vi racconterò di donne conosciute per il mondo, creature forti e belle che creano, ricreano e si ricreano ogni giorno.
L’Italia è lunga. Percorrerla in auto sotto il sole per raggiungere i lidi estivi fa penare. E lunghi sono i suoi litorali, affollati (pur se meno degli scorsi decenni) e colorati da tanti gruppi di cerchi concentrici quanti ombrelloni. E macchiati dalle pelli abbronzate e da quelle che paiono lenzuola sbiadite: prossimi ri-lavoratori e novelli vacanzieri. E poi, stoffe piene di tonalità diverse ad avvolgere corpi neri, visi marroni che attraversarono il Mediterraneo, occhi allungati per aver visto scorrere tutta l’Asia, fino a qui.
Scelgo la spiaggia libera, non ci trascorro molto tempo, ma mi piace ascoltare il suono del mare. A mezzogiorno vedo passarmi davanti foto di treccine «all’africana» accompagnate da un viso sorridente che le propone per le nostre teste. Una donna europea dai capelli bianchi, corti, arricciati dall’aria e dal sale, dice che le vorrebbe lei, avesse ancora capelli a sufficienza; e mi guarda. La «venditrice di trecce» in piedi ride. Io rispondo che prima di partire potrei farmele fare, e il mio pensiero va a un’amica in Francia, le cui origini sono in Congo: dovevamo vederci un pomeriggio, volevo imparare a far le trecce, mi avrebbe fatto provare sulle bambole. Ma con i miei capelli sarebbe stato difficile – mi aveva avvisato –: «ça glisse!», scivolano. Ciò che mi diceva anche in Congo con aria di sfida un’altra ragazza convinta non sarebbero durate sulla mia testa.
La donna in piedi mi porge il suo numero di cellulare, lo prendo, la richiamerò. «Grazie, perché tu sei gentile. Gli altri quando parlo loro si girano dall’altra parte».
Cos’ho fatto? L’ho salutata. «Sono solo umana», dico tra me e me.
Aida è senegalese, bella, giovane; due figli che frequentano le medie in Senegal, da cui è partita nel 1996 per seguire suo marito in una cittadina abruzzese col centro storico medievale, pieno di viuzze e balconi fioriti; un figlio di nove mesi di cui sua sorella si occupa mentre lei è in mia compagnia. Le regole per ottenere e rinnovare i permessi di soggiorno sono complesse: «Tanti documenti, tanti documenti…». Contratto di casa, busta paga… in un circolo in cui non si sa da dove cominciare perché ogni pezzo per essere «conquistato» necessita della pre-esistenza di un altro. E adesso, non c’è lavoro. In inverno pulizie, in estate treccine.
Le dico che sono di Torino… lì c’era il marito di una sua amica. Ha avuto un incidente sul lavoro: ustionato, è rimasto sfigurato; ora è in Senegal e tra poco tornerà nella città piemontese. Il permesso di soggiorno non ce l’aveva e quindi neanche il permesso di subire un incidente.
I vestiti che ha comprato oggi in spiaggia sono come quelli della donna dai riccioli bianchi e la pelle siciliana. Quella donna è mia mamma, fa il medesimo lavoro invernale di Aida, ma anche in estate, perché lei le trecce non le sa fare. La faccio ridere.
Aida non tira la testa e ha imparato senza problemi a fare e far durare le treccine sulle teste europee: elastici colorati per le bambine, neri per le adulte.
«Come facevi in Congo senza luce nella brousse, non avevi paura? Io ho paura degli animali», mi chiede. Entrambe abbiamo paura dei serpenti, sono pericolosi. «La gente pensa che in Africa non c’è luce, non c’è acqua, non ci sono negozi, non ci sono case… invece c’è tutto, non sanno di cosa parlano». L’Africa non è tutta uguale, è enorme e come ogni cosa enorme non è uniforme. Come l’amore.
Venti treccine attaccate alla testa, non credevo fosse possibile. Aida ha lavorato veloce per farmele piccole, «perché sei mia amica», e così durano di più.
Di Nadia Anselmo
Nadia Anselmo
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