Destinazione Costa d’Avorio, mi domando: il missionario chi è? Uno, nessuno, centomila?
Viaggiando da Roma a casa agli inizi di novembre, a poche settimane dalla mia partenza per la Côte d’Ivoire, ho ricevuto con passione l’invito a scrivere quest’articolo: invito davvero provvidenziale! Da più parti, infatti, dentro e intorno a me, in un modo o nell’altro, si affacciava con insistenza questa domanda: perché partire? Detto in altri termini: perché la missione? Permettetemi in queste righe di scrivervi a cuore aperto. In alcune battute sarò anche un po’ esagerato. Ve ne chiedo scusa fin da ora. So, però, che con voi posso essere semplicemente me stesso.
Quando un missionario (o apprendista tale, come me) ritorna dalle sue parti sente su di sé una molteplicità di sguardi, fuori e dentro la stessa comunità cristiana. Sente, cioè, cucirsi addosso una varietà di identità tre le più diverse a tal punto che, se non fa un po’ d’attenzione, rischia di diventare, per dirla con Pirandello, uno, nessuno, centomila! Per alcuni il suo abito è quello del costruttore di scuole di ogni ordine e grado, di ospedali, di chiese, di centri di formazione professionale, di alfabetizzazione, di pastorale…: è l’uomo del container e del mattone, il manager del bricolage e del fai da te. Per altri indossa i panni dell’esperto in sviluppo e cooperazione tra i popoli: è uno stratega del volontariato internazionale, una sorta di guru di onlus, ong & co. O ancora, per molti è un esperto nelle dinamiche del dialogo multi- trans- e inter-culturale, un avvocato del pianeta Terra, un conoscitore sulla propria pelle dei disequilibri e delle ingiustizie del “villaggio globale”. Un appassionato della giustizia dunque, anzi un no global per professione! La lista potrebbe continuare a lungo e ci troveremmo con altrettante, parziali, “etichette”. Tutte periferiche, tutte lontane, a volte molto, dal baricentro di una vita – quella missionaria – che solo in Dio trova raccolto il suo mistero, il suo segreto, il suo perché.
Più volte mi son detto nelle settimane passate che se noi missionari – con i nostri gesti, le nostre parole ed il nostro proporci – favoriamo questo tipo di letture della nostra vita rischiamo di tradirne il cuore pulsante. Diventa così facile impedire ai più di scoprire la Sorgente della bellezza della nostra stupenda avventura vocazionale, Sorgente a cui tutti, incontrandoci, dovrebbero poter attingere con libertà… Se, infatti, il nostro andare si trova “spiegato” da ciò che facciamo, qualcosa davvero non va più… Dico da ciò che facciamo perché la nostra vita, sicuramente in certe latitudini più che in altre, è fatta anche di tutto quanto ho elencato sopra: costruzioni, container, scuole, impegno per la salute, passione per la giustizia, denuncia dello sfruttamento del creato, cooperazione, interculturalità, onlus, ong, volontariato… Come è fatta di visite alle comunità cristiane sparse nella foresta e nella savana, di presenza e primo annuncio del Vangelo di Gesù là dove la Buona Notizia non è ancora risuonata (dopo duemila anni dalla Pasqua!), di formazione dei catecumeni e dei catechisti, di liturgia e sacramenti, di cammini di riconciliazione tra gruppi umani in tensione, di testimonianza della vita nuova nello Spirito attraverso l’accoglienza di tutti e la rottura di frontiere apparentemente invalicabili, di creatività nel rendere possibile l’incontro tra le culture e la novità assoluta della persona di Gesù, del suo Regno, della sua Parola… Missione è tutto questo e molto di più: è la quotidianità fecondata dall’incontro con l’Amato, è il sorriso regalato a chi non ha mai conosciuto la gratuità del calore umano, è la carezza e l’abbraccio offerti a chi forse non rivedrai mai più, è il passeggiare nel campo dei profughi liberiani da tutti disprezzati perché considerati tutti mercenari, è perdere tempo con chi forse non capirà mai perché sei lì, è spargere il seme della libertà evangelica in mezzo alle schiavitù della storia, è semplicità condivisa e imparata dagli ultimi… È aprire ogni attimo, ogni incontro, ogni gesto a quell’Amore che ha afferrato un giorno la tua vita e non l’ha più abbandonata. È lasciare che quel Dio che ti abita e ti inonda possa Lui stesso amare, proprio attraverso di te!, ogni altro che incontri, che non capisci. In fondo la vita missionaria è “prigioniera” dell’amore di Colui che ha dato se stesso perché tutti ritrovino la gioia, la luce, la speranza. È una vita sedotta da questo movimento di donazione e che, quindi, in questo movimento, in questo dinamismo, si getta, si tuffa, si perde. Nella certezza che solo una "vita persa" – cioè donata radicalmente, totalmente, appassionatamente… come ha fatto Gesù – in realtà non si perde ma ritrova se stessa nell’Amore. Per sempre. La vita missionaria ad gentes è poi un’esistenza messa in crisi dagli orizzonti sconfinati dell’amore di Dio che vuol raggiungere tutti. Nessuno escluso. E che si ritrova – per dono, per vocazione! – come bruciata e consumata dal desiderio di Dio che tutti si scoprano da Lui attesi, accolti, amati. Un desiderio, quello di Dio, che si è fatto carne in Gesù e vuol farsi ancora – e sempre, e dappertutto… – volto e mani e sguardo e passi nella vita dei suoi missionari. Perché tutti abbiano vita e vita abbondante, piena, eterna (cf. Gv 10,10). Ecco il perché, l’unico!, che raccoglie in unità le molteplici direzioni del “vagabondare missionario”. Molti, infatti, sono i volti della missione: tanto numerosi e diversi quanti sono i contesti in cui si è chiamati a dar visibilità e concretezza all’Amore. Un Amore che certo non si lascia vincere in creatività e troverà sempre, nella fantasia missionaria della Chiesa, mille modi per continuare ad essere fedele alla ferite della storia e del cuore dell’uomo. Di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. A partire dagli ultimi. Perché ognuno vale la vita di Dio, il sangue di Cristo.
Giovanni Paolo II amava ribadire che «nella storia della chiesa la spinta missionaria è sempre stata segno di vitalità, come la sua diminuzione è segno di una crisi di fede» (Redemptoris missio, 2). Se poi è vero che «la missione è un problema di fede» (Redemptoris missio, 11), non condividerne il dono è uno dei più evidenti sintomi della sua radicale inconsistenza. E questo, lo ripeto con parole sue, per un solo motivo: «la missione, oltre che dal mandato formale del Signore, deriva dall’esigenza profonda della vita di Dio in noi» (Redemptoris missio, 11). Il che è, forse, uno dei modi più belli per dire che la missione dipende da un solo fattore: la santità, il lasciarsi abitare dal Dio missionario e pellegrino per amore dell’uomo.
Matteo Pettinari
Matteo Pettinari
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