Un’esperienza missionaria raccontata da chi è andato e da chi ha accolto.
Asante sana Africa!
Di Eleonora Bortolomasi
«Sono ammalata, ho il mal d’Africa, credo…» Stefania mi ha scritto questo messaggio ieri e non ho potuto far altro che sorridere.
«Quali sono i sintomi?» ho chiesto alla mia amica. «Vedo il viso di Monthi (un bimbo dell’asilo in cui ci recavamo quotidianamente) in tutto ciò che guardo, rispondo “asante sana” e poi mi imbarazzo perché so che la gente non mi capisce. Voglio il riso che profuma di pop corn».
Queste sono alcune delle cose che l’Africa ci ha lasciato da portare a casa.
Ormai posso dire che tutti i miei amici sanno alla perfezione cosa vuol dire “asante” e non si stupiscono più di non sentirmi dire “grazie”. La foto di Geogy (il bimbo a cui mi sono più affezionata, che ha problemi a camminare) è attaccata alla mia scrivania: ogni volta che sto per lamentarmi di qualcosa lui mi guarda e io mi zittisco.
Siamo state in Tanzania, a Morogoro, dal 3 al 24 agosto. Eravamo 4 ragazze, Giulia, Stefania, Linda e io, Eleonora. Insieme abbiamo condiviso un’esperienza bellissima che oltre a tanta gioia ci ha dato qualcosa a cui pensare, tanto su cui riflettere. Siamo state all’Allamano Seminary per più di due settimane, gli ultimi giorni li abbiamo passati tra Iringa e Dar Es Salaam. Al mattino andavamo negli asili di Mindu, Lugono, Mafuru e Kasanga, dove Stefania si è affezionata a Monthi. I pomeriggi li passavamo a volte nel seminario, a volte in città, a volte all’orfanotrofio, dove io ho conosciuto Geogy.
Prima di partire per Morogoro, tutti ci avevano detto che il nostro viaggio ci avrebbe cambiate, che saremmo tornate diverse.
È stato così? Raramente si cambia da un giorno all’altro, per lo più si cresce, ci si trasforma senza accorgersene, e ci si ritrova diversi.
Forse dobbiamo ancora “digerire” molte cose che abbiamo “mangiato”. Mentre eravamo in Africa p. Godfrey (che da fine 2011 è con noi a Torino al Centro di Animazione Missionaria) ha usato proprio il paragone del cibo per spiegarci che in Tanzania ci stavamo nutrendo di ciò che vedevamo, provavamo, sentivamo, e che poi avremmo “digerito” con calma a casa. Da parte mia posso dire di aver capito cose che prima sapevo solo “in teoria”. Ad esempio mi ha colpito molto il problema dell’acqua: tutti sappiamo che nel mondo tantissime persone muoiono a causa della difficoltà di accesso all’acqua, ma vedere, toccare con mano, parlare con le persone che vivono quotidianamente quella difficoltà, è un’altra cosa. Noi diciamo: «Quest’acqua minerale non mi piace, preferisco quell’altra marca», mentre le persone che abbiamo incontrato bevono l’acqua del fiume dove vanno a lavarsi e gli animali si abbeverano.
Sono tornata in Italia con la convinzione che non possiamo arrenderci di fronte alla sofferenza degli altri, anche se i problemi non sono risolvibili dall’oggi al domani: qualcosa, pur poco, si può fare.
Gli eventi che organizzeremo quest’anno nel cammino con il gruppo GEM 2 (naturale proseguimento del GEM 1 – Giovani e Missione – che ci ha portato in Africa) saranno finalizzati alla raccolta di fondi per la costruzione di un pozzo vicino alla scuola di Mafuru, dove i bimbi bevono l’acqua piovana raccolta a chilometri di distanza. L’ho raccontato a una mia amica che mi ha detto: «Ma cosa risolvi? Forse quei 30 bambini adesso, bevendo acqua potabile non si ammaleranno più, ma tra 50 anni saremo punto a capo senza aver concluso proprio niente…». Non è vero. Per quanto possa sembrare poco, se non si comincia a mettere un mattone la casa non sarà mai edificata.
Siamo certi che ogni più piccolo gesto d’amore contribuisce a rendere il mondo migliore, per cui noi ci proviamo e pian piano forse la casa sarà davvero edificata.
Karibuni sana giovani
Di Erasto Mgalama
È difficile dire cosa significhi vivere con il ruolo di chi accoglie l’esperienza missionaria di un gruppo di giovani che ti viene a visitare dall’Europa.
Il missionario, che è nel suo ambiente naturale di lavoro, è portato dal gruppo a rivivere e rivedere quello stesso ambiente in modo molto diverso.
Il missionario che aspetta l’arrivo del gruppo viene innanzitutto accompagnato dall’attesa. Come in tutte le attese, anche in questa ci sono elementi di gioia e di ansia.
Questa attesa potrei paragonarla con quella di una donna incinta: il parto arriva dopo mesi di gestazione, di sbalzi di pressione, ecc. L’unica certezza che la donna ha è quella di portare con sé una vita preziosa, e che l’ora del parto arriverà in qualche modo… Da una parte c’è la gioia, dall’altra c’è l’ansia.
La parte gioiosa dell’attesa scaturisce nel missionario dalla sua certezza di attendere l’arrivo di ragazzi carichi del desiderio di vivere un’esperienza “unica” che cambierà loro la vita. Ricevendo nella propria missione giovani che hanno fatto un cammino formativo in preparazione alla partenza il missionario sa di parlare, con le parole o con il silenzio, la loro stessa lingua, e di condividere la loro stessa passione per la gente e per la missione di Gesù, dato che il Maestro è sempre Uno!
Il missionario gioisce del fatto che nel mondo ci sono ancora giovani pronti a rischiare, ed entusiasti di vivere in un breve periodo quello che dovranno poi continuare in tutta la loro vita.
Come vive la gioia, il missionario vive anche l’ansia: “Andrà tutto bene?”.
Una volta, fino a qualche anno fa, ero io a partire dall’Italia per il Tanzania con i giovani che avevo conosciuto e accompagnato nella preparazione. Ogni anno, ogni gruppo, ogni individuo era sempre diverso da quelli dell’anno precedente, quindi nessuna formula era valida per tutti. Ogni volta era tutto diverso e l’ansia di come sarebbe andata l’esperienza era sempre presente. Tanto più questa volta che ho accolto il gruppo direttamente in missione, senza conoscerlo prima.
Forse quest’incertezza costituisce la parte più bella dell’attesa perché spinge il missionario ad avere fede in Gesù, il grande missionario che suscita nei cuori dei giovani la voglia di fare e partire per amore. Il periodo di ansiosa attesa inietta l’adrenalina missionaria necessaria per affrontare “il parto”.
Appena il missionario accoglie i giovani, dalle primissime impressioni e commenti il mondo comincia a muoversi, la sua missione da quel momento cambia: ora ci sono anche degli ospiti “nella barca”. Ecco quindi che arriva il parto: il missionario accompagna ogni giovane verso la propria sintesi. Ci sono quei giovani intuitivi che velocemente arrivano alle cose più significative della missione (e quindi della loro vita). Altri giovani le scoprono a metà strada, altri alla fine. Ci sono quelli che solo al ritorno sapranno trovare il modo di leggere la loro esperienza, e quelli che né durante, né dopo si faranno le domande fondamentali della loro vita. Anche con essi il missionario vive il suo “parto”.
Per concludere vorrei usare l’immagine del parto riferendola anche ai giovani che vedono nascere in loro la missione.
Come un bambino nasce dalla relazione di un uomo con una donna, così la missione nasce dalla relazione tra un giovane e Dio. Quando nasce un bambino la vita della coppia cambia totalmente. Così la relazione tra il giovane e Dio con il “parto” dell’esperienza missionaria. La missione è “seminata” da Dio nel cuore di chi è pronto ad accoglierla generosamente. L’esperienza missionaria appena vissuta potrebbe essere paragonata ad un bambino: la crescita della missione per il giovane dipenderà dall’unità forte con la sua fonte, cioè Dio stesso.
Il desiderio più forte del missionario che vede i giovani con cui ha trascorso le settimane dell’esperienza missionaria imbarcarsi sull’aereo per tornare alle loro case è che continuino a vivere la gioia di aver dato alla luce una creatura nuova bisognosa del loro affetto per crescere, con la consapevolezza che se a volte in noi esseri umani manca la fedeltà di accompagnare la crescita del fuoco missionario, dalla parte di Dio la fedeltà nei nostri confronti non manca mai.
Di Eleonora Bortolomasi ed Erasto Mgalama
Eleonora Bortolomasi
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