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Pure la mia mamma mi chiama “Padre”

L’ha detto il parroco di chiamarmi così, durante la mia prima messa, e lei l’ha preso sul serio…

Pure la mia mamma mi chiama «padre»!
L’ha detto il parroco di chiamarmi così, durante la mia prima messa, e lei l’ha preso sul serio.
L’unico a essere imbarazzato sono io. Mio papà mi chiama semplicemente Nyamasyo, come sempre. Tutta la gente del paese mi chiama «padre», ma io non sono ancora abituato. Quando i ragazzi mi dicono: «Padre, ti cercano», mi giro per vedere se c’è un prete vicino a me. «Cercano proprio te», mi ricordano.
Ebbene, sono stato ordinato il 17 settembre 2011. Il giorno sospirato è arrivato quasi come l’ho sempre sognato: lentamente, circondato dai miei cari, nel mio paese che mi ha visto nascere e crescere, nella mia parrocchia che mi ha dato il dono della fede, dove ho fatto tutte le esperienze giovanili – catechismo, gruppo giovani, gruppo della Legio Mariae, gruppo chierichetti.
È stato bello vedere che tutti i miei compagni: della scuola, del gruppo giovani, della Legio Mariae, ecc, praticamente tutti, tranne quelli che sono tornati alla casa del Padre, erano presenti. Erano trentasette anni che la parrocchia aspettava di vedere l’ordinazione sacerdotale di un figlio uscito dal suo seno. Infatti, sono il primo a essere ordinato sacerdote dalla fondazione della missione trentasette anni fa!
Erano presenti il vescovo, i preti diocesani che si prendono cura della parrocchia e i missionari della Consolata. È stato un momento forte! Tutti lo aspettavano. M’incontravo con i vicini di casa, gli amici di sempre, gli anziani, ecc., e tutti mi dicevano: «Siamo con te!». Più di 2000 persone hanno assistito alla funzione, celebrata all’aperto tra la bella musica liturgica, i balli, i colori. La maggior parte della gente non aveva mai visto un’ordinazione sacerdotale, e c’era molta attesa.
Il momento più forte per me è stato quello della prostrazione: mentre ero lì, tremavo! Poi l’imposizione delle mani e l’unzione. Anche il ritmo e il tono del salmo responsoriale, cantato da mia cugina, è stato toccante. Quasi piangevo perché tutti, mia mamma, mio papà, gli amici d’infanzia, tutta la gente del paese, cantavano con fede e devozione: «Tu sei sacerdote per sempre, al modo di Melchisedech».
Per la maggior parte della gente (mi hanno detto dopo), il momento più forte è stato quello della prostrazione e della benedizione. Molti hanno pianto, a cominciare dai miei genitori.
Il prete e, ancor di più, il missionario, per la gente di questo paese che si trova nella parte sud-orientale del Kenya, è semplicemente una persona attraverso cui Dio si fa presente. I problemi esistenziali delle persone, quindi, lo “travolgono”. Ed ecco che subito dopo l’ordinazione molti mi hanno indirizzato le loro preghiere: «Padre prega per il mio figlio che è malato», «Padre prega per me che devo curare i miei nipotini rimasti soli perché i loro genitori sono morti», «Padre prega per la mia famiglia», ecc. Ho ricevuto tantissimi bigliettini che contenevano le intenzioni più diverse. La gente veniva, non solo per la preghiera ma per consigli pratici e per chiedere aiuto. Erano più sicuri quando vedevano che il mio ragionamento veniva dalla Scrittura e non dalla mia povera parola. Mi sono ricordato di quando il papa Benedetto XVI ha detto ai preti che senza la parola di Dio non hanno niente da dire nella Chiesa, senza la parola di Dio, non sono niente!
Parlando, condividendo, confessando, facendo le primissime omelie, mi sono accorto, più che mai, della grandezza del sacerdozio: la sua bellezza sta nell’ascoltare il popolo di Dio e nell’offrire, nella preghiera, nell’eucarestia, ciò che si è ascoltato al Signore. Tutto diventa il Corpo e il Sangue di Cristo che nutre tutti. Il sacerdote, soprattutto il missionario, compie la sua missione ascoltando e raccogliendo le gioie, i successi, le speranze, le forze della gente, ma anche i fallimenti, i peccati, le sofferenze, e offrendo tutto quanto al Signore, e chiedendo al Signore di ricordare il suo patto di pace, di bontà, di progresso, di amore con il suo popolo.
Ancora una volta sono state loro, le povere e semplici persone di Ikalaasa, la mia parrocchia e paese di origine, non solo a dare radici alla mia fede, ma anche al mio sacerdozio missionario.
Ecco perché la mia mamma mia chiama Padre! Non perché abbia salito un gradino che le fa paura, o perché appartenga a una casta sacra. Niente di tutto ciò. Infatti, pur chiamandomi padre, continua ancora a raccomandare e proibire cosa mangiare e cosa non mangiare, a rimproverare quando arrivo tardi. Come faceva quando avevo quindici anni.
Il Beato Allamano diceva ai primi missionari del Kenya: «Ognuno tenga sempre dinanzi agli occhi della mente il motivo per cui siete venuti qui. Non per motivi umani siete venuti in Africa, ma solo per farvi più santi e con voi salvare molte anime, e così meritarvi il paradiso riservato agli apostoli. E ciò otterrete se praticamente e in tutte le circostanze della vita procurerete di avere in mira Dio solo. Se ogni vostra azione, ogni parola e pensiero saranno informati ai dettami della fede. Ognuno dica con l’apostolo: “Per me vivere è Cristo”».
 

Di Nicholas Muthoka

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