Fatti duecento metri, sono sfinito, devo stendermi a terra e riposare. Sono stremato di forze, non riesco a proseguire né a cavallo né a piedi. Steso per terra mi assale uno sfinimento mortale, per la prima volta in vita mia mi si affaccia alla mente il pensiero di dover morire: faccio un sereno esame di coscienza, consegno la mia anima nelle mani di Dio!
Lettera del Padre Bindo Meldolesi I.M.C.
P. Bindo Meldolesi non è un giovanissimo. Ormai ha varcato la soglia dei quaranta. Prima di essere Missionario è stato per alcuni anni viceparroco in una parrocchia della sua diocesi di Ravenna.
Sacerdote pieno di zelo per il Regno di Dio, infaticabile nel lavoro, nel 1947 entrò nell’Istituto Missioni Consolata e nel 1949 partì per il Brasile.
Da dieci anni ormai si trova in una fra le più difficili Missioni del mondo… Il Rio Branco. Una zona immensa piena di foreste, di acqua e di malaria, disseminata da gruppi di indios e di ricercatori di diamanti, senza legge né fede.
In questo territorio l’apostolato è quanto mai duro e pieno di pericoli: ma per portare un’anima al suo Signore Padre Bindo Meldolesi darebbe anche la vita.
7 Gennaio 1958
Carissimi Chierici,
non ricordo più bene le vostre fisionomie, ma non ho dimenticato i vostri nomi e mi congratulo con voi perché avete saputo corrispondere con generosità alla grazia di Dio e adesso vi trovate già alla soglia del sacerdozio, e tra non molto tempo sarete al nostro fianco a combattere la buona battaglia per Cristo. Vi ringrazio di cuore del ricordo che avete avuto per me e approfitto della circostanza per rispondere alla vostra lettera.
Vi scrivo dall’ospedale di Boa Vista, dove da alcuni giorni sono ricoverato: stavolta, viaggiando nelle malocche (case degli Indios) mi sono guadagnato il tifo, ma grazie a Dio in pochi giorni me la sono cavata ed ora sto benone.
Sono questi i frutti del mio apostolato: quest’anno il tifo, l’anno scorso la malaria! Anzi vi voglio raccontar proprio il viaggio compiuto l’anno scorso verso una missione sperduta dell’alto Rio Branco e che si concluse con le febbri malariche. Così dalle mie esperienze imparerete ad essere più prudenti!…
20 Marzo 1957 – Parto dalla mia Missione di Sumuru, da solo, sulla groppa di un cavallo che dovrà trottare non poco prima di ritornare alla base: dovevo visitare una regione vasta (si può calcolare un quadrato di 200 Km), con case disseminate molto distante l’una dall’altra. Il panorama è quanto mai vario e suggestivo: pianure con erbe, boschi e foreste, colline e montagne, però siamo nella stagione secca, quindi poca acqua e molto sole!
21 Marzo – Dopo aver passato la notte in una fattoria, mi accingo a superare una grande distanza: quasi un giorno di viaggio senza alcun segno di vita umana. Prima di partire domando spiegazioni, mi preparo delle cartine, perché ho paura di perdere la strada. È la prima volta che mi incammino verso questa regione, infatti non tardo ad accorgermi di essere fuori strada, e solo per miracolo riesco ad orientarmi.
Viaggio tutto il giorno senza mangiare, e quel che è peggio, senza bere: tutti i torrenti che attraverso sono secchi. Alle cinque di sera mi sembra di morire di sete trovo una pozzanghera con acqua giallastra e impronte di buoi scesi ad abbeverarsi. Anch’io bagno le labbra ma l’acqua è calda e manda cattivo odore. Verso il tramonto arrivo ad una abitazione dove, finalmente, trovo acqua fresca, cioè buona gente che mi offre il conforto di vederli, la mattina seguente, assistere alla mia S. Messa e accostarsi quasi tutti alla S. Comunione.
22 Marzo – Non c’è tempo da perdere, tutti i giorni bisogna avanzare nella marcia: molte anime aspettano ancora il Missionario. Ricevo indicazioni per proseguire il viaggio verso una “maloca” situata ai piedi della montagna, nella direzione di un bosco. Dopo di aver trottato tutto il giorno, sull’imbrunire arrivo alla località indicatami, ma non trovo nessun segno di vita: chiamo, grido e mi risponde il silenzio pesante della sera. Come fare? Sono già le sette e il cielo si oscura. Provo a ritornare indietro ma smarrisco la strada già fatta e il cavallo mi conduce in mezzo ad una palude dove non ci si può muovere senza affondare: l’erba è molto alta e non è difficile l’incontro di qualche serpente; ho solo un coltello per difesa e lo tengo a portata di mano. Niente da fare: mi rassegno di tornare sui miei passi, ai piedi della montagna e in un pianoro verde e comodo calcolo di passare la notte, lì vicino al mio cavallo che pascola l’erbetta fresca e umida. Comincia per me il tormento della sete, un’arsura terribile, prima non la sentivo preoccupato com’ero del cammino. Non vedo attorno una goccia di acqua e assolutamente non mi sento di bere l’acqua putrida e fangosa di quella palude. Passano le ore, e disperato, prego Iddio che mi faccia trovare un po’ d’acqua. Con molta circospezione giro attorno e, come per incanto, sento un lieve sussurro d’acqua che scende li tra le pietre, mi chino e la trovo limpida e fresca. Mi ricordo allora che proprio in quella direzione nella giornata avevo visto nuvoloni neri sciogliersi in un rapido acquazzone. Bevo ringraziando Iddio “per sora nostra acqua che è casta, pretiosa et bella”.
Il luogo dove sono accampato è pericoloso, in generale sui pendii delle montagne si nascondono le onze (specie di tigri) in abbondanza, ma non ho paura: sto recitando il Rosario. A pochi passi di qui scorgo una piccola traccia di sentiero e, in compagnia del cavallo mi inoltro, ma ad un certo punto mi trovo ai limiti d’una foresta oscura e chiusa. Segno allora il sentiero stesso dalla parte opposta ed anche di lì termina in un bosco fittissimo di erbe e piante e non è cosa simpatica entrarci di notte, alle undici sale all’orizzonte la luna e la sua luce fioca mi rasserena.
Il pensiero di Dio e della SS. Consolata non mi si allontana dalla mente. Non chiedo miracoli, mi basta la grazia di mantenermi calmo e paziente fino al sorgere del sole. Poco dopo odo abbaiare dei cani. Penso: se ci sono i cani, ci sarà pure qualche abitazione, però non mi nascondo che possono essere dei cani selvatici, che vivono nella foresta e incontrarli è molto pericoloso: sono, una specie di lupi.
Tuttavia decido di avviarmi verso quella direzione: con coraggio e forza di volontà entro fra quelle erbe alte, a piedi, trascinandomi dietro il cavallo che non posso cavalcare per paura di affondare i quel terreno molto fangoso.
Dopo mille giri, non so come, la boscaglia si apre in un sentiero largo e comodo. Continuo a camminare nella direzione dei cani, finché arrivo ad una malocca di Indios: busso alla porta fatta di una pelle di bue, ma nessuno risponde, batto e ribatto di nuovo finché la gente si decide ad aprirmi, temendo sia un ladro. M’accorgo subito che non è la casa che io cercavo dal mattino, tuttavia ricevo ospitalità. L’orologio segna le ore piccole della notte. Attacco la mia rete in un angolo della capanna e mi addormento a stomaco vuoto.
23 Marzo – Il mattino seguente gli Indios che mi hanno ospitato mi indicano il sentiero giusto per arrivare alla casa che io cercavo il giorno innanzi. Comprendo ora lo sbaglio fatto: mi avevano indicato il bosco della montagna come punto di riferimento, ma di boschi ce n’erano due e io avevo scelto la direzione opposta.
26 Marzo – Attraverso una zona dove regnano le zanzare: acquitrini e paludi in tutte le parti: per camminare devo far svolazzare continuamente il fazzoletto davanti alla faccia. In questi posti abita povera gente dedita alla caccia e alla pesca, non ci sono contadini né proprietari di buoi. Arrivo ad una casa con molta fame, ma mi accorgo che non hanno nulla. Si alza un ragazzo, prende un arco e una freccia e mi dice: aspetta un poco, Padre. Non passa un quarto d’ora che arriva con un grosso pesce infilato nella freccia. Il pesce si chiama “Pacù”, di forma circolare, grasso che non si può immaginare: mangio di gusto alla maggior gloria di Dio. Tutta questa gente riceve con piacere la visita del Missionario: distribuisco santini e medaglie, do qualche medicina ai malati, soprattutto mi fermo a fare un po’ di spiegazioni sulla religione e raccomando loro di essere buoni cristiani. In questi posti quasi non arriva il mondo con le sue seduzioni, la gente vive lavorando sodo, portano tutti i segni della fatica sul volto scarno, non c’è tempo né possibilità di lusso… meglio così.
30 Marzo – Arrivo in una fattoria dove stanno domando un cavallo ancora selvatico: lo spettacolo è interessante. Bendano gli occhi al cavallo, gli mettono i finimenti, la sella, poi un coraggioso salta in groppa e via: quando lo sbendano si salvi chi può! La bestia comincia a saltare e sbuffare, mentre il cavaliere la frusta maledettamente conficcando gli speroni nelle carni. Ad un certo punto il cavallo gonfia il ventre e spezza le cinghie della sella: il cavaliere vedendosi perduto si getta davanti e per poco non rimane sotto gli zoccoli della bestia infuriata. Ma questi uomini non si perdono di coraggio: riprendono l’animale, cambiano le cinghie rotte e lo stesso uomo di prima salta in groppa e ripete l’operazione. Stavolta la bestia si arrende al nugolo di sferzate e speronate e poco per volta si calma e segue gli ordini.
31 Marzo – Arrivo in un luogo situato in cima ad una collina e vedo molti buoi vicino ad una casa: nessuno mi dice il perché. Lascio il mio cavallo pascolare tranquillamente sull’erba… il mattino seguente, dopo la S. Messa lo mando a prendere e quasi non lo riconosco più, il suo colore bianchiccio si è mutato in un rosso vivo. Povera bestia: è stato assediato da una razza di mosche giganti, specialità della regione. A centinaia e centinaia si sono posate sulla sua pelle, hanno succhiato il sangue dalle sue vene. Lasciandolo letteralmente coperto di chiazze rosse. In belle maniere osservo a quella gente che dovevano avvertirmi di questo flagello: essi si scusano e io devo rassegnarmi ad accompagnare il fido compagno di viaggio, ridotto ad uno stato di fiacchezza da far pietà.
2 Aprile – Mi fermo in una fattoria dove trovo gente un po’ eccitata e in movimento. Ne domando il motivo e mi rispondono che poco prima, era passato vicino alla casa un folto gruppo di porci selvatici ed una donna per poco non veniva travolta dal loro impeto se non si fosse arrampicata su un alberello. Di frequente in questi posti avviene il passaggio di questi animali, che si uniscono in mandrie di decine e centinaia, producendo un chiasso indiavolato e travolgendo tutto. Una razza è soprattutto pericolosa: quella che ha una striscia bianca sulle spalle e attacca l ‘uomo. Se un povero disgraziato incontra per la strada un gruppo di queste bestiacce, cerchi pure di arrampicarsi su qualche albero se c’è, se no c’è il pericolo di finire i suoi giorni fra le forti mandibole di questi terribili animali. I porci più pericolosi sono anche quelli che più facilmente cadono sotto i colpi del cacciatore, perché questi si nasconde dietro un albero e appena li vede arrivare, s’arrampica e ne ammazza molti, a decine, guidati come sono dall’istinto ad assalire il cacciatore. Se invece ti trovi a cavallo e incontri questi porci, non c’è tempo da perdere, sprona a tutta forza la tua cavalcatura per liberarti da questi importuni.
4 Aprile – Arrivo in una “Malocca”. Come di solito la fame non è poca, però stavolta m’accorgo che non è solo mia proprietà. Faccio uno Sposalizio e, caso strano, gli Indios ammazzano per me una gallina, una delle poche e magre che allevano nei loro pollai. Rimango meravigliato e… commosso dalla loro generosità. Arrivata l’ora di pranzo mi invitano a mangiare. La gallina fumante è pronta in mezzo alla tavola: intendiamoci, una tavola senza piedi, fatta di pelle di bue stesa per terra, la sedia è un guscio di tartaruga con la parte rotonda voltata in basso, di modo che si possono fare tutti i movimenti che si vogliono. Comincio a mangiare circondato da Indios che stanno a guardare a occhi spalancati ad una certa distanza. Comprendo subito e dico tra me: qui non c’è niente da fare, anche questa gente è affamata almeno come me, infatti si divorano l’arrosto con gli occhi. Mi servo di un pezzetto di pollo, poi invito quella gente a servirsi. Non l’avessi mai fatto: in un baleno i più vicini si precipitano sulla mal capitata bestiola e in un attimo la fanno scomparire. Davanti a tanta semplicità io me la rido allegramente e ripeto tra me: “qui scrivi è perfetta letizia”.
8 Aprile – A sera arrivo in un’altra fattoria. La prima cosa che faccio è quella di prendere un bagno perché sono sudato e stanco, ma succede che quando scendo nell’acqua sento un brivido che mi scuote da capo a piedi. Capisco immediatamente che mi sono buscato qualche malanno. A cena non riesco a mangiare. Il giorno dopo a cavallo parto ma con molta fatica e continuamente madido di sudore. Viaggio sotto un sole che spacca la testa ed arrivo in un’altra fattoria. Il malessere continua, mi accorgo che non posso così continuare il viaggio. I sintomi sono quelli della malaria: è la prima volta che me la piglio, finora mi sono vantato sempre di essere forte e non mi sono preoccupato di usare molti riguardi, ma adesso sono di fronte alla realtà. Ho la malaria addosso, sono lontano da qualsiasi centro in cui possa affidarmi a qualche infermiere o medico e, quel che è peggio, sono a corto di medicine quelle poche che avevo le ho distribuite agli Indios malati. Nella casa che mi ospita trovo molti bambini, il babbo dovrà arrivare forse domani: essi mangiano solo del grasso che il mio stomaco assolutamente non può ritenere: sento anche un forte mal di testa.
10 Aprile – Il giorno dopo arriva il padrone di casa, e, parlando su quel che si può fare, mi suggerisce che c’è un fiume non molto distante per il quale passano sempre piccole imbarcazioni dirette a Boa Vista, il centro della regione dei nostri Missionari. Decido di accettare il tentativo di una occasione, ma per arrivare a quel luogo non bastano tre ore di cavallo: potrò io riuscire a trascinarmi fin là? In quello stesso giorno due uomini a cavallo accompagnano una cinquantina di buoi in quella direzione, decido di andare con loro. Con molta fatica tengo dietro ad essi, poi sono obbligato a fermarmi. Essi mi promettono di inviare un bambino per guida e continuano il viaggio. Non conosco la strada né mi sono preoccupato di chiedere spiegazioni. Sono ora sulla riva di un lago, mi stendo per terra e senza paura di serpenti o altre bestie, mi copro la testa col casco e dormo lasciando libero il cavallo. Poco dopo mi sveglio, mi sento un po’ meglio, fortunatamente il cavallo è ancora vicino: lo monto e seguo le orme dei buoi passati poco prima. Fatti duecento metri, sono sfinito, devo stendermi di nuovo a terra e riposare. Sono stremato di forze, non riesco a proseguire né a cavallo né a piedi; stavolta lego il cavallo ad un albero e penso di fermarmi fino all’arrivo del ragazzo promesso. Steso per terra mi assale uno sfinimento mortale, per la prima volta in vita mia mi si affaccia alla mente il pensiero di dover morire: faccio un sereno esame di coscienza, consegno la mia anima nelle mani di Dio! Mi trovo solo, in mezzo a queste lande sterminate: la mia mente rapidamente corre alla mia famiglia, alla mamma, ai confratelli, e mi pare che sia arrivata la mia ultima ora, improvvisamente, inaspettatamente. In quel momento mi sono ricordato delle parole d’un canto missionario ripetuto tante volte in Noviziato: “Quando spossati cadono per via, Vergin piena d’amore, Tu posati loro accanto!” e mi sembra che la SS. Consolata si posi vicino a me e mi accarezzi la fronte bruciata dalla febbre e bagnata dal sudore. Insensibilmente mi assopisco e riposo. Ma ecco, mi sveglio di soprassalto: è il bambino che mi chiama e mi scuote quasi pensando che sia morto; invece mi sento meglio, mi alzo e in sua compagnia riesco ad arrivare ad una malocca. Gli Indios mi offrono una loro bevanda che a dire il vero è molto diuretica e si chiama: “cascirì”: l’accetto e sento che mi ristora.
11 Aprile – Passo la notte in quella casa ma il mattino seguente m’accorto che nella mia zanzariera c’è un grande buco e le zanzare penetrano indisturbate: queste benedette donne avevano scorto nella mia zanzariera uno spillo di quei grandi, e durante il mio sonno, l’avevano delicatamente rubato e così il buco era rimasto aperto chissà, tutta la notte.
12 Aprile – Il giorno dopo riesco ad arrivare alla riva del fiume e presto odo il rumore di una barca a motore diretta a Boa Vista.
Lascio il cavallo ad un giovanotto che mi promette di portarlo alla Missione, ed entro nella barca. Viaggio con una famiglia di piccoli commercianti che vivono vendendo e acquistando merci nelle case situate lungo la riva del fiume. Mi offrono un po’ di formaggio che lo stomaco ritiene bene prendo un po’ di forza ed anche la febbre diminuisce. La barca fila a tutto motore seguendo la corrente d’acqua e verso sera arriviamo a Boa Vista.
Mi sembra un sogno, quando dopo molti mesi, rivedo i miei Confratelli. Già mi sento benone di salute e non mi preoccupo di medicine, però a notte non riesco a dormire; la mia fantasia nel dormiveglia si popola di spettri e di scene orrende che mi passano davanti come in un cinema interminabile. Al mattino mi alzo a celebrare la S. Messa ma poco dopo sono costretto a tornare a letto: un freddo misterioso mi invade, dalle ginocchia si estende a tutto il corpo, comincio a tremare e a battere i denti, mi butto addosso tutto quello che trovo, ma non serve, il freddo par che mi raggeli il sangue! Mi rassegno anche a quella esperienza e passo un’ora battendo i denti e tremando come una foglia: che malattia curiosa questa malaria. Al freddo intensissimo succede un calore soffocante mentre la febbre sale rapidamente fino ai 41°.
Arrivano le Suore della Consolata che dirigono l’ospedale, con iniezioni e pastiglie antimalariche.
Una settimana dopo mi alzo un po’ indolenzito, ma già guarito… e qui finisce l’avventura!…
Cari Chierici, preparatevi con ardore e generosità: il mondo è grande, le anime da convertire e salvare sono tante ed aspettano i nostri sacrifici per spezzare i lacci maledetti dell’incredulità e del peccato. Noi siamo poca cosa, ma i nostri desideri intensi e le nostre preghiere commuovono il cuore di Dio ed ottengono la conversione delle anime.
Saluti in Cristo
Padre Bindo Meldolesi
Missionario della Consolata
Da A.MI.CO. n.1 – 1958
redazione
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