Il primo marzo ero in piazza, in mezzo ai lavoratori stranieri rivendicanti il loro diritto alla dignità.
La musica era un intreccio di tonalità diverse e accenti variegati; gruppi di persone “multi-colore” si sono formati davanti alla stazione di Porta Nuova di Torino tra le ore 17 e le 18, quando tutti ci si è messi in movimento per le vie del centro città.
Ho preso in mano una delle bandiere arancione distribuite dal Gruppo Abele, rappresentanti due impronte di mano, una bianca e una nera.
Ero sola in mezzo a lingue che non capivo, mi guardavo intorno mentre alcuni giovani anarchici coprivano con un telo di plastica nera la testa statuaria di un alpino col pennacchio. Ad ogni manifestazione interessi e idee diverse possono mettersi insieme e talvolta sfociare in qualcosa che poco ha a che fare con l’intento iniziale degli organizzatori o con la ricorrenza da celebrare.
Invece, in mezzo alla gente del gruppo Abele (volontari, utenti, loro amici e conoscenti), non si voleva fare rumore per nulla, non si urlavano bestemmie né sono stati cantati inni dimenticati che solo l’olezzo di cannabis di alcune manifestazioni è capace di rispolverare: tra quelle bandiere arancioni e rosse l’unione era data dal denominatore comune di essere Persone, lavoratrici, nate in questo mondo.
“Da 12 anni aspetto il permesso di soggiorno: sono italiano?”, “Io ho il sangue rosso e tu?”: alcuni giovani camminavano con queste frasi scritte su cartelli appesi al collo, e ricevevano qualche risposta da chi si dava la pena di leggere.
Un anziano mi ha fermato: “Per cosa manifestate?”; “Per i diritti dei lavoratori immigrati”. L’espressione di sufficienza apparsa sul suo viso stava per innervosirmi, ma la sua risposta verbale mi ha lasciato un po’ di fiato: “Be’, se è per una buona causa, va bene manifestare un po’”. Ho deciso di prenderla come l’autorizzazione concessa ai giovani nati in un mondo globale di esprimere quali ritengono essere i loro bisogni fondamentali da parte di una generazione cresciuta nel luogo in cui è nata, non abituata a varcare i confini del proprio paese attraverso le reti globali e sorpresa dal cambiamento repentino e problematico del proprio territorio e della propria società causato dai responsabili dell’economia e della politica che per interesse non hanno aiutato la gente comune a capire cosa stesse succedendo.
Ritrovarmi in mezzo a volti dai tratti non familiari, ascoltare toni di voce cui sono abituata ad attribuire un significato ma che invece significavano altro, sentire il mio corpo diverso da quelli che vedevo intorno a me produceva un misto di sensazioni difficilmente denotabile dalla parola “agio”. Erano sensazioni che ho provato in paesi lontani, ma anche sulla soglia di casa, in tutte le situazioni in cui mi sono ritrovata “sola”, fuori da un gruppo, distante da punti di riferimento. Come potevo smuovere la situazione questa volta?
“Hai paura di me perché non mi conosci”: ecco un altro cartello umano. Gli sono andata vicino per presentarmi, perché nessuno dei due potesse avere paura, e non ho smesso di dialogare con lui fino alla fine della manifestazione. Il ragazzo era alto, un “vatusso” direbbero i nostri “vecchi”. “Vedi? Tu fai qualcosa di bello. Qui c’è gente come te, come me, poi filippini, sudamericani, tutti insieme… è emozionante, dà forza”: da quell’altezza, decisamente maggiore rispetto alla mia, il mio interlocutore vedeva più lontano di tanta gente che crede di capire, ma non vede più in là del proprio naso.
I miei nuovi amici senegalesi sono simpatici; i visi scuri animati da una lingua straniera sono diventati sorrisi bianchi e universali nella notte torinese: una notte di una Torino interculturale, profumata, mescolata, come piace a me. Viva perché vera, vera perché specchio del mondo, specchio del mondo perché meta e luogo di partenza di persone diverse nate in luoghi diversi, figlie di Dio.
Nadia Anselmo
Nadia Anselmo
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