Nella missione si verifica la parola di Gesù: "Senza di me non potete fare nulla".
IL RISORTO APPARE LUNGO IL MARE (Gv. 21,1-14)
La narrazione si apre – non senza qualche sorpresa – con i discepoli ritornati al loro lavoro. Sono stati inviati in missione, eppure qui è come se nulla fosse accaduto. Sono semplicemente ritornati al loro antico mestiere.
Ma la loro fatica notturna è del tutto infruttuosa. Solo la presenza di Gesù la capovolge. A un suo preciso comando, gettano di nuovo la rete e questa volta la ritirano piena di 153 grossi pesci. L’ episodio è una parabola della futura missione: vuota senza Cristo, fruttuosa con Lui. È soprattutto nella missione che si verifica la parola di Gesù: "Senza di me non potete fare nulla". È la parola del Signore che riempie le reti, e sarà sempre la sua parola che renderà efficace in ogni tempo la missione dei discepoli. Letto così, l’episodio non dimentica l’invio dei discepoli in missione (20,21), ma lo precisa. L’annotazione che i discepoli sono tornati a pescare non è un modo maldestro di introdurre la narrazione, contraddittorio con il fatto che essi sono già stati inviati in missione. È invece un attacco intelligente e indispensabile per introdurre una annotazione che precisa la natura della missione ricevuta.
Anche una seconda annotazione sembra indirizzare verso il tema della missione. Su comando del Signore, Pietro si affretta a trascinare a terra la rete "piena di 153 grossi pesci, e benché fossero così tanti la rete non si ruppe" (21,11). Il numero dei pesci indicato con tanta precisione assume un significato simbolico? Alcuni lo pensano, cercando un significato nascosto nel numero 153. Ma forse il numero vuole semplicemente significare la grandezza del successo: una pesca straordinaria. O forse, anche, vuole suggerire che l’episodio è reale. Chi era presente è persino in grado di indicare il numero dei pesci che sono stati presi!
Più importante invece, mi sembra, il particolare che la rete non si è rotta. La missione non rompe l’unità della comunità, anche se questa ingrandirà a dismisura. A una condizione però: che la missione avvenga unicamente sulla parola del Signore. Altre parole dividono. Se ogni missionario annunciasse un suo personale vangelo, la rete si romperebbe!
Un’ultima annotazione, forse la più importante, non più ecclesiale questa ma cristologica: tutti riconoscono il Signore quando dice "Venite a mangiare". Riconoscono il Risorto quando ripete il gesto più simbolico di tutta la sua vita terrena: il servizio a mensa. Gesù distribuisce il pane e i pesci (21,13), un silenzioso memoriale della moltiplicazione dei pani e della cena. Il Risorto si fa riconoscere nel gesto della dedizione, che è stata la verità del suo intero cammino. La nota della dedizione appartiene al Gesù terreno e al Signore Risorto. È l’identità che lo accompagna in ogni sua condizione di vita.
LA MISSIONE DI PIETRO
Il dialogo è costruito intorno al numero tre: tre domande di Gesù, tre risposte di Pietro, tre imperativi di Gesù.
Nonostante il parere contrario di alcuni studiosi, penso che la triplice domanda alluda al triplice rinnegamento. È un’allusione importante. Non significa che Gesù intende reintegrare Pietro nella sua posizione di apostolo, restituendogli una fiducia che si era persa. Qui c’è un incarico, non semplicemente una reintegrazione. Piuttosto l’allusione al rinnegamento riprende un dato già presente in Matteo e Luca: il contrasto fra la debolezza di Pietro e il compito che gli viene affidato. Pietro è pastore per grazia, non per merito. La sua solidità poggia unicamente sul Signore. Questo libera la sua autorità dalle sue doti personali, e libera l’obbedienza della comunità da ogni personale valutazione.
Non si tratta, a ben guardare, di tre domande, bensì di un’unica domanda ripetuta tre volte. Con qualche leggera variante, però. Per significare amore vengono usati due verbi (filein e agapan): forse un desiderio di variare, ma anche un desiderio di totalità. L’amore che Cristo chiede ha tutte le sfumature dell’amore: dalla dedizione all’affettuosa amicizia.
Gesù chiede a Pietro l’amore, non altro. Pietro ha confessato Gesù (6,68), poi ha detto di non conoscerlo, ora gli viene chiesto amore, cioè appartenenza, dedizione, esclusività.
Un amore con una direzione precisa. Certo Pietro deve amare anche il suo gregge. Ma qui è sottolineata la direzione: verso Cristo!
L’incarico che Pietro riceve è per gli altri, ma alla radice sta l’amore per Cristo.
Il pastore non appartiene al gregge, ma al Signore.
E questa è libertà: il pastore deve rendere conto al Signore, non ad altri.
Per servire gli uomini non deve solo guardare gli uomini,
ma Gesù Cristo.
Pietro non dà a Gesù tre risposte, ma una sola risposta ripetuta tre volte. Egli è convinto di amare il Signore, ma non c’è in lui alcuna presunzione: lascia cadere il "più degli altri", e sempre si affida alla "chiaroveggenza" del Signore. La sua assenza di presunzione – così diversa da quando lo ha rinnegato ("anche se gli altri… io no") – diventa addirittura alla fine incertezza: "tu sai".
Gli imperativi di Gesù costituiscono un vero e proprio incarico. Non basta l’amore a Cristo per essere pastore, occorre un incarico. E come per l’amore, anche per esprimere l’incarico vengono usati due verbi, come pure per esprimere il gregge. Un semplice desiderio di variare? Certamente c’è anche questo, ma c’è anche un desiderio di indicare la pienezza. La pienezza dell’amore per Cristo, e la pienezza dell’incarico di essere pastore: pastore di tutto il gregge, pecore e agnelli; pastore che pensa a tutto ciò di cui il gregge ha bisogno.
Per comprendere meglio la metafora del pastore è bene leggere il capitolo 10 del vangelo di Giovanni, dove si dice che Gesù è il vero pastore, e che due sono le caratteristiche che lo distinguono:
• ama le sue pecore, le conduce al pascolo e cammina davanti ad esse;
• difende le sue pecore e dona per esse la sua vita.
C’è un concetto importante che sottostà a tutta l’allegoria: Gesù/pastore è il riflesso, la trasparenza visibile del Padre pastore. Nell’azione pastorale di Gesù si fa presente e visibile la presenza del Padre. Lo stesso rapporto è da intendersi fra Gesù e Pietro. Pietro non è una sorta di luogotenente, o ambasciatore, di un Cristo assente, bensì l’espressione visibile di un Cristo invisibilmente presente.
Mi si permetta un’annotazione: Gesù/pastore non solo traccia la strada al gregge (cammina davanti al gregge), né è soltanto colui che raduna il gregge (che ama le sue pecore), ma è colui che – camminando davanti al gregge – pensa alle pecore che non appartengono all’ovile. Così Pietro: è il pastore della Chiesa, ma il suo pensiero è per il mondo intero. La sua funzione è anche di non permettere alla comunità cristiana di chiudersi nel particolare, di estraniarsi dal mondo, di pensare a se stessa.
Rispetto alla scena precedente (21,1-14) la metafora è cambiata: non più la pesca ma il gregge, non più i pesci ma le pecore.
La prima metafora dice la missione, la seconda la cura della comunità.
Tutte e due le metafore appartengono a Pietro. Il suo ministero si svolge contemporaneamente in due direzioni.
La strada sulla quale condurre il gregge non è tracciata da Pietro, ma da Gesù: "Seguimi!". Pietro è il pastore, ma a sua volta deve, lui per primo, seguire un altro pastore. Pietro è la guida – tale incarico è dato a lui, non agli altri discepoli, neppure al discepolo amato – ma non per questo cessa di essere anzitutto un discepolo.
LE TRE DOMANDE DI GESÙ A PIETRO
Tornando all’episodio in riva al mare, Gesù rivolge le sue domande a Pietro chiamandolo sempre Simone, come in 1,42. Nel primo incontro il nome Simone è stato cambiato da Gesù in Pietro, in quest’ultimo incontro – dove il segreto del cambiamento viene finalmente svelato – ritorna paradossalmente il nome di prima. Ad essere pastore e roccia è sempre l’uomo Simone.
Due volte Gesù rivolge esplicitamente a Pietro l’invito alla sequela. La prima dopo avergli predetto il martirio che lo attende (21,19). La seconda rispondendo a una domanda di Pietro sul discepolo amato: "Se voglio che rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi" (21,22). L’imperativo della sequela viene ora rivolto dal Signore risorto, ma è il medesimo imperativo che ha già rivolto ai discepoli il Gesù terreno. È cambiata l’esistenza di Gesù, non la sequela del discepolo.
La strada da percorrere è sempre quella della Croce. L’appartenenza del pastore al Signore Gesù è così stretta che il destino dell’uno e dell’altro non sono più separabili. Il martirio fa parte del destino del pastore. Anche se resta vero che il martirio – che Pietro è chiamato a vivere – non è necessariamente di tutti. Anche il discepolo amato "segue" Gesù (21,20), anche lui è presentato come un modello, tuttavia a lui Gesù non ha predetto il martirio.
ALCUNE APPLICAZIONI PER LA NOSTRA VITA
1. Mi fa paura la “pesca infruttuosa”, cioè la possibilità reale di essere “sterili” nella nostra vita. La missione è sterile se si basa sui nostri sforzi se cerchiamo quello che “noi” pensiamo giusto, spesso il nostro tornaconto, gratificazione o l’applauso della gente. Ricordiamoci che solo gettando la rete “sulla sua Parola” la riempiremo di una quantità di pesci, come viene raccontato in Luca 5,1-11. Il gregge da pascere non è di Pietro, ma di Gesù. Il suo compito deriva da un mandato preciso del Risorto è a Lui che Pietro deve rispondere!
2. Spesso anche noi “torniamo al lavoro” per dimenticare, le nostre preoccupazioni e il poco che siamo. Il lavoro è come una “droga” che ci inebria, ci estranea da noi stessi, siamo frenetici, corriamo fisicamente e con la mente. E la radice del male rimane, spesso la perdita di entusiasmo e del senso di quello che facciamo, l’inerzia nel fare le cose, il vuoto interiore, e il calo di tensione per Lui.
3. Gli atteggiamenti di Gesù sono esemplari per il nostro rapportarci agli altri in comunità e con la gente.
Osserva il seguente:
• Gesù cammina sulla spiaggia, all’alba, senza dire niente, una presenza discreta, al punto che non si erano accorti di Lui, come nell’episodio dei discepoli di Emmaus. Missione è anche: stare accanto alla gente, come delle presenze discrete, diventare compagni di viaggio silenziosi, senza dogmi o lezioni da impartire. La gente deve capire che il missionario/a c’è per ogni evenienza e su di lui/lei può sempre contare.
• E poi il Risorto non rimprovera, parte da quello che avrebbero dovuto avere e invece non hanno, per farlo dire a loro che hanno fallito, non hanno preso niente. Bello questo!! Avesse Gesù rimproverato, i discepoli si sarebbero chiusi e difficilmente ammesso il loro sbaglio. Senti che bello e con quanto affetto Gesù li chiama: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?” Non è comune nel N.T. che li chiami così.
• “Pietro mi ami tu?” Questa è la domande delle domande! La sorgente e il fine di tutto. Bada bene che Gesù non ha chiesto a Pietro il suo curriculum vitae, i diplomi, la professionalità nel fare le cose, ma solo l’amore totalizzante per Lui. “E’ il Signore!!”, esclama Giovanni, che deve farci fare tutto quello che facciamo! E’ Lui ragione del nostro essere e vivere la missione, ed è Lui che dobbiamo mostrare alla gente, non noi!
Il Signore non è una “fascia” che si aggiunge al panno della nostra esistenza. L’amore per Cristo che non abbia il marchio della totalità è ambiguo. Il part-time non è ammissibile. Il servizio a ore nemmeno! In concreto è necessario innamorarsi di Cristo, fare capo a lui per tutte le componenti della nostra vita. Innamorarsi vuol dire conoscenza profonda di lui, dimestichezza con lui, frequentazione della sua casa, assimilazione al suo pensiero, accoglimento senza sconti delle esigenze radicali del Vangelo.
Noi, a furia di vincere le passioni, abbiamo spento anche la “passione per il Regno”. Non abbiamo più i brividi. I sogni e le forti idealità che pure ci hanno nutriti per tanti anni, li abbiamo cacciati come malattie infantili. Adesso siamo misurati nel linguaggio, e siamo affascinati dal mito “dei piedi per terra”.
Non possiamo andare avanti così: la gente se ne accorge se noi crediamo e amiamo il Signore veramente, oppure facciamo il “mestiere” di missionari e missionarie. In questo modo ci condanniamo ad una insopportabile mediocrità. La nostra missione dipende solo dal nostro grado di innamoramento (mi ami tu?) del Signore, da come ci comportiamo per imitarlo, dalla radicalità della nostra sequela e se siamo pronti a dare la vita.
Allora la gente potrà esultare, come Giovanni: “E’ il Signore!”.
Antonio Rovelli
Antonio Rovelli
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