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Samuel Ruiz, vescovo degli indigeni.

La notizia della morte di Mons. Samuel Ruiz ha commosso Messico e America Latina.

La notizia della morte di Mons. Samuel Ruiz, lunedì 24 gennaio 2011, a causa di complicazioni legate al diabete, ha diffuso un’ondata di commozione in Messico e in tutta l’America Latina, dove il vescovo emerito di San Cristobal de las Casas, (stato del Chiapas), di 86 anni, è ricordato come uomo di pace, vicino ai bisogni degli ultimi e dei più poveri della società messicana, cioè i contadini indigeni della regione meridionale del Messico.
La Chiesa messicana e latinoamericana perde un punto di riferimento: "Ci mancherà la sua parola profetica nella Chiesa e nel mondo. Ci mancherà ancora di più in questo momento in cui c’è povertà etica anche in chi ha responsabilità nella costruzione della società", ha detto il vescovo di Saltillo, Raúl Vera.
Nella storia del Messico, Samuel Ruíz, conosciuto anche come il "vescovo dei poveri", sarà ricordato come una delle figure religiose di maggior influenza per la difesa e la denuncia delle violazioni contro le popolazioni indigene e per avere sempre avuto occhi capaci di vedere l’immagine di Dio in ciascuno dei suoi fratelli e sorelle.
Il presule era stato insignito nel 2002 con il Premio Internazionale per i Diritti Umani dell’UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura). Inoltre, nel 1994, era stato candidato al Nobel per la Pace per il suo ruolo di mediatore tra il governo messicano e l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN).
Samuel Ruíz era una "figura di responsabilità morale ed etica nel ruolo di vescovo inteso come rappresentante di una Chiesa che dovrebbe servire il mondo, non se stessa." Aveva assunto l’incarico della diocesi di San Cristobal a soli 35 anni e, tra le sue azioni, è da ricordare la fondazione del Centro per la Difesa dei Diritti Umani Fray Bartolomé de las Casas.
Lascia un’eredità che la Chiesa non potrà perdere senza banalizzare le sue radici evangeliche. Tra i vari aspetti meritano di essere ricordati:
•    lo sviluppo integrale dei popoli indigeni, perché possano essere soggetti nella Chiesa e nella società;
•    l’opzione preferenziale per i poveri e la liberazione degli oppressi, come segno del Regno di Dio;
•    la libertà di denunciare l’ingiustizia di fronte a qualsiasi potere arbitrario;
•    la difesa dei diritti umani, l’inserimento pastorale nella realtà sociale e nella storia;
•    l’inculturazione della Chiesa per promuovere ciò che è richiesto dal Concilio Vaticano II: che ci siano chiese autoctone incarnate nelle diverse culture, indigene e meticcie;
•    la promozione della dignità delle donne e la loro corresponsabilità nella Chiesa e nella società;
•    una Chiesa aperta al mondo e servitrice del popolo.
Mons. Ruiz è anche stato un promotore di ecumenismo, non solo con altre confessioni cristiane, ma con ogni religione. In particolare si è avvicinato con simpatia alla teologia india, intesa come ricerca della presenza di Dio nelle culture originali. Da questo contatto è nata una pastorale di insieme, con responsabilità condivise, e la formazione di diaconi permanenti impostata con un processo specifico per i popoli indigeni. Il tutto vissuto in un atteggiamento di comunione profonda con la chiesa universale.
Molti di questi aspetti risultano essere di frontiera, aspetti delicati, sia da comprendere alla luce del Vangelo, che da applicare nella comunione ecclesiale. In modo particolare quello della teologia india e quello legato al diaconato permanente per gli indigeni americani.
Ricordo di aver conosciuto Mons. Samuel Ruíz nel 1975 in occasione di un Congresso di americanisti svoltosi in Messico. La chiesa missionaria Latinoamericana si trovava in una fase di aggiornamento, come richiesto e sollecitato dal Vaticano II, e in un momento di cambiamento di attitudini verso due gruppi che fanno parte integrante della società latinoamericana: gli indios e gli afrodiscendenti. Allo stesso tempo la Chiesa missionaria in America Latina si trovava sotto la pressione di antropologi e sociologi i quali criticavano l’azione evangelizzatrice del passato, giudicata come “colonizzatrice” e accusata di aver favorito l’etnocidio e il genocidio di popoli indigeni.
Dopo il Concilio Vaticano II la Chiesa missionaria in America Latina guidata nelle riflessioni di Vescovi come il colombiano Gerardo Valencia Cano, Leonidas Proaño (Taita Leonidas), profeta della riscossa indigena nella provincia ecuadoriana del Chimborazo, e lo stesso “Tatic” Samuel, si trovava in una fase di ricerca di nuovi cammini pastorali, scegliendo di accompagnare specialmente le popolazioni indigene nella lotta per il riconoscimento dei loro diritti sulla terra e sul territorio, della propria identità, cultura e autonomia.
Questo faticoso e spesso doloroso cammino si trova riflesso in molti incontri promossi dal Dipartimento missionario e nei conseguenti documenti, che sono il frutto di riflessioni teologiche e di nuove proiezioni pastorali. I contenuti specifici sul tema delle popolazioni indigene e afrodiscendenti hanno avuto poi il loro riconoscimento ufficiale negli incontri delle Conferenze Episcopali Latinoamericane  di Puebla (1979), Santo Domingo (1992), e Aparecida (2007).
Una risonanza pastorale di queste voci e riflessioni si trova in ben 13 discorsi del Papa Giovanni Paolo II rivolte alle popolazioni aborigene dell’America in occasione dei suoi numerosi viaggi missionari.
 

Gaetano Mazzoleni

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