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HMONG: Storia di un popolo perseguitato

I «hmong»» sono una gruppo asiatico. Solo nel Laos, si calcola che siano circa 450.000. Inoltre, essi vivono nella Cina meridionale, in Cambogia, in Thailandia e in Vietnam.

I «hmong»» sono una gruppo asiatico. Solo nel Laos, si calcola che siano circa 450.000 circa l’8% dell’intera popolazione che li porta a essere il terzo gruppo dopo Lao e Khmou del Paese. Inoltre, i Hmong  vivono nella Cina meridionale, in Cambogia, in Thailandia e in Vietnam.

Nel 2008 è uscito il film «Gran Torino» interpretato e diretto da Clint Eastwood. Un film drammatico ma che per la prima volta ha portato sullo schermo la comunità ««hmong»». Alcuni di loro sono i vicini di casa del noto attore americano che lui inizialmente detesta, ma con i quali in seguito nascerà una profonda, anche se, visto il finale, tragica amicizia.
Purtroppo però la pellicola, che ha riscosso un enorme successo, non ha acceso i riflettori su una comunità perseguitata e che è sottoposta a vessazioni di ogni tipo. Una comunità che continua a rimanere immersa nell’ombra e nel silenzio che la circondano da tempo.
Durante la guerra del Vietnam, alcuni ««hmong»» sono stati reclutati dalla CIA per sostenere l’esercito americano in Vietnam e nel Laos. Nei dieci anni successivi al 1973, anno in cui si ritirarono gli Americani, circa 300 mila laotiani, inclusi molti «hmong», sono scappati in Thailandia per chiedere il riconoscimento dello status di rifugiato. La maggior parte di loro si sono diretti in altri Paesi, in particolare negli Stati Uniti che hanno accolto circa 250 mila laotiani tra il 1975 e il 1996, oltre la metà dei quali di etnia «hmong».
Nel 1975, con l’avvento di un governo comunista in Laos, i «hmong» vennero considerati un gruppo di cui diffidare e da guardare con sospetto. E questo ha portato molte famiglie a rifugiarsi nella foresta. Secondo quanto riportato da alcuni rifugiati e dalle organizzazioni dei diritti umani, alcune migliaia di «hmong», compresi donne, vecchi e bambini, vivono tuttora nella foresta continuando a essere soggetti ad attacchi indiscriminati da parte dell’esercito laotiano.

Storie di vita

«Vivevo nella foresta. I soldati laotiani e vietnamiti ci cercavano senza sosta e hanno ucciso molti membri della mia famiglia. A volte gli aerei ci bombardavano con un gas velenoso dal colorito giallo. Dovevamo correre e nasconderci tra gli alberi. Ho visto molte persone morire. Durante un attacco aereo, una delle mie sorelle ha respirato questo gas ed è morta. A mia madre sono caduti tutti i denti mentre ne trasportava il corpo.
Mio marito ha deciso che dovevamo abbandonare la foresta e ha pensato di portarci via da lì. Quando siamo riusciti finalmente ad attraversare il Mekong con un pescatore pagato da mio marito, abbiamo dato dell’argento a un conducente che ci ha portato dove si trovava la nostra comunità a Huai Nam Khao, nella regione di Petchabun nel nord della Thailandia. Tutto quello che avevamo era un coltello. Alcuni «hmong» di origine tailandese ci hanno ospitato ma poi siamo stati costretti ad andare insieme ai «hmong» di origine laotiana che si trovavano accampati lungo la strada…ci sentiamo più al sicuro qui ma tutti dicono che ci rimanderanno indietro. Ho tanta paura di tornare in Laos». YU, 22 anni circa, viveva nella foresta della provincia di Xieng Khaouang nel Laos. Nel maggio del 2005, è scappata in Thailandia dopo che 5 cugini e 2 sorelle sono state uccise durante un attacco alla sua famiglia. Viveva con il marito e la loro bimba di 3 anni nel campo di Huai Nam Khao. 
Una storia toccante ma che purtroppo è la prima di una lunga serie: «Nel 2002, l’esercito laotiano ha circondato l’area in cui vivevamo io e la mia famiglia. Mio marito e io siamo stati arrestati. E anche i miei 4 figli sono stati portati in un campo. I soldati ci hanno portato in un villaggio dove siamo rimasti per circa un mese. Poi i militari hanno preso mio marito e un altro uomo e sono andati nella giungla per cercare altri «hmong». Quella è stata l’ultima volta che l’ho visto. Ho chiesto ai soldati sue notizie ma mi hanno picchiata. Due volte alla settimana mi portavano in caserma per interrogarmi. Sono stata ripetutamente violentata. Quando i militari hanno capito che ero rimasta incinta, mi hanno messo in prigione. I miei figli stavano ancora nel campo. Sapevo che se non fossi scappata mi avrebbero ucciso. Non avevo altra scelta, dovevo andar via e non potevo portare i miei figli con me. Una volta nella giungla, ho visto i resti dell’uomo che accompagnava mi marito, aveva la gola tagliata e ho immaginato che avesse fatto la stessa fine. Sono arrivata nella capitale, Vientiane. Alcune persone mi hanno detto che i soldati mi stavano cercando e mi hanno aiutato a trovare una barca per attraversare il Mekong e arrivare a Huai Nam Khao, in Thailandia. Lì, ho avuto il mio bambino perché, nonostante fosse il figlio di una violenza, era parte di me. Non mi possono mandare indietro nel Laos. Non dormo la notte alla sola idea di ritornare». KL viveva prevalentemente nella foresta della provincia di Xieng Khaouang. Suo padre aveva combattuto insieme ad altri «hmong» ed era stato presumibilmente addestrato dalla CIA.
Le storie sono moltissime ma ho preso, a mio avviso, le più emblematiche per dare l’idea dell’orrore perpetrato ai danni di una popolazione che paga un prezzo altissimo solo perché i loro padri, e non tutti, hanno sostenuto l’esercito americano più di 30 anni fa.

Rimpatri forzati dalla Thailandia

Dal 2004, circa 5.000 «hmong» di origine laotiana, alcuni dei quali richiedenti asilo si erano rifugiati nella foresta vicino al villaggio di Huai Nam Khao dove ricevevano cibo dai residenti. Alcuni lavoravano nelle fattorie mentre altri barattavano i pochi averi per avere qualcosa da mangiare.
Nel 2005, l’esercito tailandese ha costretto loro a uscire dalla foresta proibendo alla popolazione locale di aiutarli. Allora, hanno messo su un campo di fortuna su di una striscia di terra ampia 10 metri situata lungo la strada principale.
Tra giugno e dicembre 2006 sono arrivate 2.000 nuove persone. Il governo thailandese decide di spostare la popolazione in un nuovo sito.
Nel maggio del 2007, il governo tailandese e quello laotiano siglano un accodo che prevede il rimpatrio forzato di tutti i «hmong» «residenti» nel campo entro la fine del 2009. A giugno, la comunità che aveva raggiunto le 7.800 persone viene deportata in una nuova zona a circa 3 chilometri dal centro del villaggio. Un nuovo campo dove, pur con condizioni di vita migliori, vengono relegati in 20 ettari di terra in una zona collinare circondata da filo spinato.
Nonostante le proteste e le manifestazioni organizzate dai «hmong» per portare l’attenzione della opinione pubblica internazionale sulla loro situazione, sono cominciati i rimpatri forzati che secondo le autorità tailandesi erano «spontanei». Il governo tailandese si è sempre rifiutato di affidare a un organismo indipendente la valutazione dei singoli casi prima del rimpatrio. A questo riguardo, l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (ACNUR) non è potuto entrare  nel campo di Huai Nam Khao per verificare se le paure espresse dai «hmong» di essere perseguitati in patria fossero fondate e quindi di considerarne la protezione.
Nel dicembre 2008, si è avuta una forte accelerazione con circa 200 rimpatri al mese e alla fine di dicembre 2009 sono state rimpatriate circa 4.000 persone.
È impossibile sapere la sorte di molte persone perché il governo laotiano non permette a nessuna organizzazione di entrare nel Paese per valutarne la situazione. Un governo che ha siglato nel settembre del 2009 il Patto sui diritti politici e civili che prevede di garantire alla persona che vive sul suo territorio di non essere soggetta a tortura, di circolare liberamente, di scegliere il luogo dove risiedere e di esercitare la libertà di espressione. Tutto questo, però, continua a essere negato alla comunità «hmong» nell’indifferenza dei media internazionali.

 

Marina Berdini

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