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R. Panikkar profeta del dopodomani

Non è contraddittorio affermare che altre culture e religioni sono portatrici di altre dimensioni e aspetti di questo mistero che i cristiani chiamano Cristo.

«Per quaranta giorni, con la preparazione adeguata e le preghiere, la Quaresima ha lo scopo di portare noi alla resurrezione. Si tratta della nostra risurrezione. Se noi non siamo risorti, non serve a nulla. Il mistero della risurrezione consiste proprio nel fatto che questo miracolo ci riguarda, è anche nostro.
Essere risorto vuol dire essere trasformato in qualcosa che non muore. Tutto l’ anno cristiano culmina in questo momento della nostra risurrezione. Essa però ha un prezzo, che a volte non siamo disposti a pagare: la morte. Per risorgere dobbiamo morire. Morire al nostro ego, all’egoismo, all’egocentrismo che ci porta a privilegiare prima noi e poi tutto il resto. Dunque, non risurrezione dopo la morte, ma la morte dell’ ego nel corso della vita. “Sono risorto e ancora sto con te”. È una risurrezione che si fa lentamente. In ognuno di noi».
Questa riflessione di Raimon Panikkar Alemany, deceduto il 26 agosto 2010 a Tavertet, in Catalonia, mi offre l’occasione di presentare, sia pure superficialmente e rapidamente, la figura di questo grande teologo missionario, che nella sua vita e nella sua riflessione scientifica ha sempre ricercato la fedeltà al vangelo di Gesù Cristo.
Leggere qualche sua opera per approfondire temi di teologia delle religioni può essere per noi missionari, scrutatori come lui dei segni dei tempi, un atto di ascesi quaresimale.

LA SUA VITA
Raimon Panikkar è nato il 3 novembre 1918 a Barcellona da padre indiano e hindu e da madre catalana e cattolica. Di origine multiculturale e multireligiosa, scrisse di se: «Non mi considero mezzo spagnolo e mezzo indiano, mezzo cattolico e mezzo hindu, ma totalmente occidentale e totalmente cattolico».
Instaurò nel 1940 una relazione di amicizia con S. Escriva de Balaguer, facendo parte del primo nucleo di fedeli laici dell’Opus Dei. Fu ordinato sacerdote nel 1946 e conseguì varie lauree: in filosofia, in scienze, in lettere e in teologia.
A 36 anni, staccatosi dall’Opus Dei, si recò «in missione apostolica» in India, stabilendosi a Varanasi, la città santa dell’induismo, e abitando una piccola stanza sopra un vecchio tempio di Shiva, accanto al Gange.
Accolse il Dalai Lama in fuga dai Cinesi, e iniziò una lunga amicizia con due sacerdoti francesi pionieri del dialogo interreligioso: Jules Monchanin e Henri Le Saux, fondatori dell’ashram Saccidananda, e con il monaco camaldolese inglese Bede Griffiths. Fu proprio vivendo con loro che Panikkar trovò la conferma di poter essere al contempo cristiano e hindu, attraverso l’intuizione advaita, che supera il dualismo.
Nell’incontro con la religione e la cultura millenaria dell’India, scoprì nuovi orizzonti nella concezione di Dio, dell’essere umano e del cosmo. Ma l’incontro profondo con l’ induismo e il buddhismo non gli fece abbandonare il cristianesimo: «Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindu e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano» (Il dialogo intrareligioso, Assisi 1988).
Dal 1966 al 1987 viaggiò tra India e Stati Uniti, insegnando Filosofia e storia delle religioni nelle Università di Harvard, Santa Barbara in California e in Varanasi.
Conobbe, papa Paolo VI («gli chiesi perché si debba vestire il linguaggio della cultura semita e greca per essere cristiani»), Martin Heidegger («era curioso, umile, mi ha subissato di domande sulla filosofia indiana»), Hans Urs von Balthasar («ho frequentato a lungo la sua casa»), fu amico di Paul Ricoeur, di Mircea Eliade. E ancora: «Ho conosciuto Picasso a Madrid, Emile Cioran a Parigi («amava il vino»), Octavio Paz a New York».
Si ritirò nel 1987 a Tavertet, paesino ai piedi dei Pirenei, dove ha continuato a tenere corsi, seminari e incontri su temi filosofici, religiosi, culturali e di approfondimento delle diverse tradizioni dell’umanità, e fondando il Centro di studi interculturale Vivarium.
«La vita ci è stata data. Io non scrivo la mia storia, la vivo. La mia grande aspirazione è di abbracciare, o ancor meglio, di arrivare a essere (vivere) la realtà in tutta la sua pienezza».

TRATTI DEL SUO PENSIERO
Raimon Panikkar non è un pensatore facile e convenzionale: egli, infatti, infrange molti schemi, convenzioni e pregiudizi. Oggi il suo pensiero è penetrato nella teologia.
Lo storico e antropologo del sacro Julien Ries, oggi cardinale, dice che per comprendere il rapporto tra culture e fedi questo teologo è indispensabile. Anzi: «Non si fa a meno di Panikkar».

L’advaita, l’unità e l’armonia
Il suo pensiero, ispirato dal principio advaita (Essere tutt’uno, Essere qui. Non c’è separazione. Solo Essere. Non esiste dualità) propone una visione dell’armonia, della concordia, dell’unità, che vuole scoprire «l’invariante umano» senza distruggere le diversità culturali che mirano tutte alla realizzazione della persona in continuo processo di creazione. Vede nell’omologazione all’uniformità la grande tentazione del mondo contemporaneo: «Prima si diceva un solo Dio, una sola religione, una sola civiltà, adesso si dice un mercato comune, un’unica organizzazione mondiale, una civiltà globale, ma è la stessa sindrome».

Il dialogo
Per Panikkar il dialogo è importante, non è un lusso, ma qualcosa di strettamente necessario. Deve diventare «dialogo dialogico» capace di riconoscere le differenze, ma anche quanto si ha in comune. La prima condizione per un dialogo, naturalmente, è il riconoscimento dell’altro, del suo valore e della sua dignità. C’è bisogno di empatia, di «credere in ciò che l’altro crede», altrimenti lo si legge solo dall’esterno, cioè non lo si comprende affatto. L’essere umano è un essere in relazione e il pluralismo autentico si manifesta come scoperta dell’altro, che poi non è altro che scoperta di se stessi, tanto da fargli dire: «quanto più siamo l’altro, tanto più siamo noi stessi».
Il dialogo religioso vuol essere un incontro genuino, sincero e arricchente delle diverse religioni e tradizioni religiose; cerca una relazione inclusiva delle stesse, in cui la interindipendenza non presuppone il perdere la propria identità, ma accettare che le altre possano essere complementari alla nostra (Il dialogo intrareligioso).
Si tratta di una «interrelazione serena e di una interpretazione dialogale di tutti i cammini che la gente crede possano portarla alla pienezza o destinazione finale della propria vita» (Ecumenismo critico. La nuova innocenza).
Nessuno come Panikkar è riuscito a creare un pensiero organico e originale sul dialogo fra le religioni. La sua lettura era svincolata da visioni ideologiche o settarie. Qualcuno lo ha criticato di scivolare nel sincretismo o nel panteismo. In realtà egli difendeva il diritto delle religioni di poter esprimere le proprie verità e per questo amava dire «inter-in-dipendenza» proprio con l’intento di spiegare la connessione fra le tradizioni religiose come dialogo di verità autonome le une dalle altre, ma aperte all’incontro.
La grande sfida del terzo millennio cristiano è dunque quella di essere veramente cattolici – cioè universali – il che vuol dire non avere una dottrina, che è talora necessaria, ma non è certo universale. Per avere l’universalità del cristianesimo, si richiede una kenosi, uno svuotamento intellettuale, ed è questo che fa paura.
Anche l’ecumenismo-ecumenico «non comporta uniformità di opinioni, ma sta a significare piuttosto armonia di cuori», cerca «una maggiore comprensione, un criticismo correttivo e una maggiore fecondazione tra tradizioni religiose» (La nuova innocenza).

La quadruplice identità
Panikkar ha assunto nel corso della sua vita una quadruplice identità: cristiana, hindu, buddhista, e, in fine, l’identità secolare quale risultato del suo contatto col mondo occidentale.
«Vorrei essere fedele all’intuizione buddhista, non allontanarmi dall’esperienza cristiana e rimanere in comunione con il mondo culturale contemporaneo. Perché innalzare barriere? Il fatto di elogiare una tradizione umana e religiosa non significa disprezzare le altre. La loro sintesi è improbabile e talvolta forse impossibile, ma ciò non vuol dire che l’unica alternativa consista o nell’esclusivismo o nell’eclettismo” ( Il silenzio del Buddha. Un ateismo religioso, Milano 2006).
Bisogna riconoscere che nel nostro autore c’è una evoluzione da una concezione tradizionalmente cattolica e un pensiero neotomista ad una amplissima impostazione universale che lo porta a un dialogo non solamente interreligioso, ma anche intrareligioso; questo secondo Panikkar è quello che ha prodotto di più e che più ci interessa.
C’è però un filo conduttore constante, fin dai suoi primi scritti: l’aspirazione di farsi carico dell’uomo e portarlo fino alla origine ultima, fino alla pienezza in una costante ricerca dell’armonia.
Non abbandonò mai Cristo, durante tutta la sua vita. «L’ho conosciuto nella mia giovinezza e da allora non l’ho mai abbandonato». Il suo primo impegno teologico è stato quello di estendere la presenza del Risorto a tutte le tradizioni religiose dell’umanità. «Gesù è il Cristo, ma il Cristo non s’identifica con Gesù». Questa formulazione, che sta a significare che la presenza salvatrice di Cristo opera dappertutto anche se non conosciuta con questo nome, ha provocato fiumi d’inchiostro e critiche severe.
Penso che la più bella risposta di Panikkar sia affidata al suo libro La pienezza dell’uomo: una cristofania, dove egli tenta di superare il metodo storico-critico e quello personalistico e invita ogni credente a diventare Cristo e a immedesimarsi totalmente con Lui per avere accesso a una reale conoscenza del Cristo.
Lo spiega con precisione anche Gianfranco Ravasi, in una sua recente recensione a questo volume: «Il suo è il tentativo di edificare una cristologia inoltrandosi su nuovi sentieri e usando… linguaggi inediti (si ricorre a nove sutra secondo il tipico linguaggio hindu per delineare l’epifania cristica), e si appella al “terzo occhio” per penetrare nel “giardino dei simboli”. Credo che sarebbe una notevole conquista per la società odierna – di ogni “etnia” e di ogni credo religioso – sapersi aprire ad alcuni concetti espressi con tanta lucidità nell’opera di questo eccezionale teologo».
«I Cristiani non devono rinunciare ad asserire la verità della loro fede. Ma ciò non significa che i Cristiani abbiano il monopolio su Cristo o che la loro conoscenza di lui sia esaustiva della sua piena realtà. Non c’è niente di contraddittorio nell’affermare che altre culture e religioni sono portatrici di altre dimensioni e aspetti di questo mistero che i cristiani chiamano Cristo». (La nuova innocenza, 2003).

La sapienza di vita
Da questa esperienza gli proviene lo stile di vita ascetica che lo accompagnerà per tutta la vita.
Alla base della sua concezione troviamo l’unità tra vita quotidiana e vita spirituale, una teoria radicale di libera ricerca interiore, che ha sostenuto nel suo libro La sfida di scoprirsi monaco. Panikkar vi espone la tesi rivoluzionaria di una priorità logica e storica del monachesimo rispetto alle religioni e alle chiese; vi descrive antropologicamente la vocazione e la vita del monaco come una dimensione e un archetipo dell’uomo. Al centro del discorso, il concetto vitale di «conversione». Non si diviene monaco, samnyasin, attraverso un processo di riflessione, e neppure per un desiderio di Dio o di altro: ma come risultato di un’esigenza, frutto di un’esperienza che ci porta a mutare, e alla fine a rompere qualcosa nella propria vita, per amore di quella «cosa» che tutto abbraccia o trascende, e che ha tanti nomi quante le esperienze religiose. Monaco è colui che lascia la propria casa per abbracciare e abitare il mondo intero. «Non si diventa monaco per fare qualcosa o per ottenere qualcosa ma per essere. È l’esistenza di tale aspirazione ontologica dell’essere umano che mi porta a parlare della dimensione monastica come di una dimensione costitutiva della vita umana».
Raimon Panikkar è stato l’icona di una saggezza amorosa che ha tentato di superare le fratture nelle quali si dibatte la nostra convulsa civiltà e di gettare ponti di comprensione fra le varie culture umane.
Era un autentico maestro spirituale capace di seminare instancabilmente e di ispirare le persone più diverse, per quella saggezza spirituale che è «il potere di riconoscere la farfalla in un bruco, l’aquila in un uovo, il santo in un peccatore», come racconta una bella storia sufi. «Cercate Dio». Sono state le sue ultime parole, la sintesi di tutta la sua vita.
 

Di Giuseppe Ronco –

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