Slow page dei Missionari della consolata

Casa Milaico: basta salire in barca

Sentirsi accolti da sguardi che non giudicano

Foto di gruppo del Campo Famiglie tenutosi a casa Milaico, Nervesa della Battaglia, Tv, nell'agosto 2019.

Uno dei partecipanti al Campo Famiglie dell’agosto scorso a casa Milaico, Nervesa della Battaglia (Tv), ci scrive per condividere con noi un tratto del suo cammino e l’esperienza dell’incontro avuto con le persone “pronte a servire” che lì ha incontrato.

Prima di scrivere qualcosa sul Campo Famiglie di Mi.Lai.Co., mi sembra giusto parlarvi un po’ di me. È un modo per farvi capire le emozioni contrastanti che mi accompagnano ogni volta che mi affaccio sul “piccolo mondo” del Campo Famiglie.

Io provengo da una famiglia molto credente, i miei genitori sono stati delle persone molto belle e autentiche, nella mia famiglia i valori cristiani erano messi in atto ogni giorno con una modestia disarmante. La mia famiglia era molto attiva in parrocchia, mio padre e mia sorella cantavano nel coro, mio padre era sempre disponibile per i lavori in parrocchia e per organizzare la vita parrocchiale, io invece ero chierichetto.

Con il passare degli anni tutti i rituali, la messa alla domenica, le preghiere la sera, hanno iniziato a svuotarsi del loro significato e diventavano degli obblighi ai quali bisognava attenersi perché “è così che si fa”.

Io non porto il nome Tomaso a caso, in tutto quello che faccio ho bisogno di conoscere, di sentire il valore degli atti che compio, non riesco a vivere sapendo di assolvere un dovere, non riesco a dare retta a chi mi dice di chinare la testa e pregare.

A quei tempi i miei genitori nella loro umiltà non riuscivano a darmi risposte se non quel “dovere” che mi ingabbia e mi fa mancare l’aria. I rappresentanti della chiesa nella loro superbia hanno solo saputo dirmi di non farmi troppe domande e fare come dicevano loro.

La mia vita poteva essere semplice e lineare: la parrocchia, i sacramenti, far parte di una buona famiglia, la ragazza del quartiere; invece io sono scappato, alla prima occasione che mi hanno dato gli studi, sono scappato lontano da tutto questo, molto più lontano dei 1500 km che avevo messo di distanza tra me e la mia famiglia.

Sono andato così lontano da non poter più tornare quello di prima, mi sentivo libero di vivere la “mia” vita e non quella che si immaginavano per me i genitori o il parroco, sono scappato dalla chiesa, intraprendendo un percorso nuovo.

Per questo ogni volta che ritorno a Mi.Lai.Co. per me è difficile riuscire a sentirmi a mio agio: le preghiere, i canti, i rituali non mi riportano alla memoria dei bei ricordi.

Ma il Campo famiglie è un microcosmo: basta una battuta, uno scherzo, qualche sorriso e dei piatti da lavare e ti senti accolto, come in un viaggio per mare, basta salire in barca e lasciarsi trasportare.

Siamo accolti dagli sguardi non giudicanti di persone che vogliono conoscerci e condividere con noi un piccolo tratto di cammino.

Gli sguardi diventano importanti perché ci accompagnano ogni giorno in quello che facciamo con Iago, mio figlio.
Un genitore di un figlio con disabilità deve affrontare quotidianamente gli sguardi degli altri: nel parcheggio, al supermercato, all’altalena, in piscina. È come se la vita ti avesse steso un tappeto rosso con ai lati tutte le persone come spettatori a guardare, ma non è una passerella molto ambita la nostra. A volte riusciamo anche a indovinare i loro pensieri dai loro sguardi, ti sembra di sentirli sottovoce dire: “Oh poverino”, “ma guarda come cammina male”, “se capitasse a me…”, “che sfortunato!”, “se capitasse a mio figlio, non so…”, “per foturna è capitato a lui e non a mio figlio”.

Ma sulla barca di Mi.Lai.Co, non ci sono tappeti rossi, ci sono solo persone che vogliono venire a incontrarci e non solo rimanere a guardare e commentare “le nostre miserie”.

Al Campo Famiglia, Iago, e con lui anche io, Elise e Léon, riceviamo sguardi accoglienti che subito diventano mani e braccia pronte ad aiutare, accompagnare e abbracciare, tanto che Iago in tutti e 5 i giorni non ha mai usato la sua sedia a rotelle. A Mi.Lai.Co. abbiamo incontrato persone disponibili ad aiutare Iago, ma anche a sollevare per un momento noi dai compiti che compiamo tutti i giorni. Persone pronte a servire.

Iago sta esplorando la chitarra di Ricky, Elise, la mamma, è la prima a destra, Tomaso, il papà e autore dell’articolo, è il secondo da destra vicino al muro.

In questo mondo dove si pensa solo a usare, servire è una vera rivoluzione, un’azione di una potenza disarmante, un gesto che mi riporta al ricordo dei miei genitori sempre pronti ad accogliere e aiutare.

Gli sguardi diventano meno importanti perché sono seguiti dalle azioni, dai gesti concreti di chi anche solo per un pomeriggio vuole alleviare il nostro quotidiano, e anche da chi, invece che rimanere nel sua zona di comfort a giudicare, fa un passo verso Iago e viene a conoscerlo.

Iago restituisce poesia a tutti questi gesti: con i suo equilibrio fragile, con i gesti incerti, con le parole che gli mancano; perché ha fame di relazioni, vuole conoscere chi gli tende la mano e donare anche in un solo abbraccio quello che ha da offrire.

Dell’ultimo giorno porto un ricordo indelebile di tutte le mani che si sono posate sulla testa di Iago a benedirlo, quelle mani erano sempre diverse, ma ognuna portava un dono. Quel gesto per me era carico di significato perché le mani si posavano proprio nel punto dove i medici ci hanno detto che il cervello di Iago non si è formato: era come se con quel contatto tutte le persone volessero trasmettere la propria energia in quel punto e donare a Iago qualcosa di sé.

Allora mi sono concesso un pensiero “stupido”: credere che tutta quella energia andrà a colmare le mancanze di quel cervello che non si è formato come gli altri, un pensiero che non ha nessuna base medica, un pensiero senza nessuna possibilità. Ma anche un pensiero che invece ha una grande base “umana” e di cui sono convinto, credo nel potere delle persone di aiutare Iago e credo che, grazie a lui, queste persone riusciranno a scoprire qualcosa di più su se stesse e sugli altri.

Il primo grande effetto è avvenuto su di me: per questo pensiero ho smesso di aver paura del verbo “credere”, perché non è più una parola che mi fa chinare la testa, ma un’azione che mi dà la forza di guardare lontano.

di Tomaso  Nardin

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Tomaso Nardin

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