Slow page dei Missionari della consolata

Missionari, è il massimo

Padre Alessandro Conti, brianzolo, lavora da anni in America Latina. In Messico vive a contatto con le ferite della gente, cui prova a offrire consolazione.

Originario di Belledo, frazione di Lecco, padre Alessandro Conti è nato nel 1965, ed è stato ordinato sacerdote missionario della Consolata nel 2001. Dal 2002 lavora in America Latina, prima in Venezuela, e poi, dal 2009, in Messico, dove, con i suoi confratelli, si dedica all’ascolto e all’accompagnamento, anche psicologico, delle persone che incontra.

«Ho studiato fino a 14 anni, poi ho iniziato a lavorare in una piccola ditta che faceva assemblaggio elettronico di schede per macchine a raggi x.
I missionari della Consolata li ho conosciuti nell’89, a un campo estivo, e sono entrato in seminario nel ‘91, quando lavoravo già da 12 anni. Il mio datore di lavoro, che era quasi una guida spirituale per me, faceva parte della pastorale del lavoro che si riuniva nella casa Imc di Bevera. Un giorno mi ha dato un depliant di un campo estivo organizzato dai missionari per giovani di tutta Italia.
Io a venti anni avevo avuto una specie di conversione: avevo iniziato a chiedermi che senso avesse per me la vita, e ho iniziato una ricerca. Quando sono arrivato dai missionari, ho sentito che quella era la mia casa. L’esperienza estiva di Bevera mi è piaciuta, e ho iniziato a frequentare la casa una volta al mese, poi una volta alla settimana, finché non ho iniziato ad andare tutti i giorni.
Un’esperienza molto bella è stata quella della fondazione della comunità di accoglienza per migranti Namaste: i primi quattro accolti erano senegalesi e marocchini. Frequentando i missionari sono rimasto affascinato dalla loro vita, in più in quel periodo facevo un cammino di discernimento con il mio viceparroco, e lui mi ha detto che non mi vedeva come prete diocesano. Dopo due anni ho capito che ero chiamato per la missione.
Sono entrato nel 1991 nel seminario di Bedizzole (Brescia), dove ho iniziato le scuole magistrali. L’anno dopo sono andato a Rivoli con i miei compagni di seminario: mentre loro facevano filosofia, io studiavo per diplomarmi. Ho fatto quattro anni in due, e nel 1993 ho iniziato la filosofia a Torino. Poi ho fatto il noviziato a Vittorio Veneto nel 1995-96, la teologia a Roma dal 1996 al 1999, la specializzazione in pastorale a Madrid nel 1999-2000. Nel 2001 sono stato ordinato nella casa di Bevera e nel 2002 sono partito per il Venezuela, nella zona costiera a Barlovento, abitata da afrodiscendenti. Dopo due anni sono andato a Caracas, la capitale.
Dal 2009 sono in Messico a Guadalajara. Inizialmente eravamo due padri della Consolata con una famiglia di laici venezuelani: una coppia con due figli. Il terzo lo hanno avuto lì in missione, e dopo tre anni di esperienza sono tornati in Venezuela. Quando nel 2012 sono arrivati altri due confratelli, eravamo in zona campesina, rurale. Poi, volendo aprire una comunità formativa e valutando che, con i mezzi pubblici, si raggiungeva l’università di Guadalajara in due o tre ore, abbiamo deciso di affittare una casa più vicina alla città. Quindi ora a Guadalajara abbiamo una comunità pastorale in zona rurale in cui ci sono un padre etiope (padre Barisso Abishu Morke, ndr) e uno brasiliano (padre Ronildo De França Pinto, ndr), e una comunità formativa in città in cui viviamo io, tre studenti, e il formatore che è un altro missionario della Consolata etiope, (padre Daniel Wolde Sugamo, ndr)».

In quale ambito vi state spendendo?
«Quello su cui stiamo cercando di lavorare è la povertà esistenziale. Stiamo facendo un progetto il cui nome, Naim, prende spunto dall’episodio della vedova di Naim raccontato nel Vangelo di Luca (7, 11-17). Esso vuole offrire alle persone un supporto di tipo emozionale, psicologico. Vogliamo creare un centro di attenzione. C’è, infatti, tutto un background di sofferenze personali inascoltate. C’è sempre qualcuno che ce l’ha con i genitori, o con i figli, o con i parenti, o con il capo di lavoro, e c’è molto risentimento. Vogliamo fare un lavoro sulla riconciliazione. Seguiamo un po’ il cammino dell’Espere, il progetto nato in Colombia dal nostro confratello padre Leonel Narváez Gómez. Dedichiamo tanto tempo all’ascolto: aiutare le persone, aiuta un futuro migliore per loro e per chi sta loro intorno. È un’attività nata da noi, ma che portiamo avanti con l’aiuto di volontari professionali, psicologi, terapeuti. Stiamo cercando anche avvocati per aiutare le cause dei più deboli».

Siete inseriti nella parrocchia del vostro territorio?
«Venendo in Messico si è deciso di non prendere parrocchie. Le parrocchie si occupano generalmente di circa il 20% della popolazione, ma a noi interessa il restante 80% che non frequenta e che spesso ha ancora più bisogno di incontrare Gesù.
Oltre alle due comunità di Guadalajara, ne abbiamo una terza nel Sud, in Chiapas. Per volontà del vescovo locale, lì siamo responsabili di una parrocchia che ha un territorio abitato da 110mila persone, in una zona di periferia in cui c’è una comunità indigena, e dove c’è gente che vive in case di fortuna. È una zona dimenticata dai governanti in cui è molto forte il fenomeno delle chiese evangeliche e pentecostali, e la presenza di testimoni di Geova e Mormoni. In due km quadrati si possono trovare sette chiese di denominazioni differenti. Il lavoro missionario è quindi anche quello di avvicinamento e dialogo, non sempre facile, con le altre chiese.
A Guadalajara è diverso. Qui c’è un cattolicesimo molto tradizionale e molto forte, e la presenza di altre confessioni è minore. Solitamente le chiese sono pienissime: nella parrocchia della zona rurale, la domenica ci sono 13 messe. In questa città c’è un seminario che è, forse, il più grande del mondo: dal minore alla teologia ci sono 1.300 studenti. Anche il cattolicesimo tradizionale è per noi una sfida: dobbiamo aiutare la gente a distinguere tra la religiosità e la fede vissuta tutti i giorni, e non è semplice».

Qual è la difficoltà più grande che incontri? E quale la soddisfazione?
«La difficoltà più grande è il sentimento di impotenza di fronte alle situazioni umane dolorose: faccio parte di una équipe di professionisti che lavora con vittime di abusi sessuali, di conflitti di varia natura, ecc. Incontro una sofferenza inimmaginabile. Mi rendo conto che c’è un mondo sotterraneo e silenzioso di dolore. C’è gente che ti parla di abusi sessuali anche dopo trent’anni che li ha subiti. Le persone sono contente di trovare un luogo in cui possono raccontare con sicurezza i loro dolori.
E la soddisfazione più grande è legata alla stessa cosa: mi piace vedere di poter dare una mano a qualcuno a essere un po’ più felice. Nella nostra zona, ma, mi sembra, in tutto il Messico, è molto forte una visione della vita in cui domina il sentimento della colpa, e quindi mi dà gioia vedere che a volte riesco a mostrare un Dio diverso, il nostro Dio di misericordia, di amore, che non sta lì con la pistola per punire ogni sbaglio. La mia soddisfazione è vedere la gente che recupera vicinanza con Dio, che inizia a liberarsi da colpe che non deve assumersi. A me piace molto il brano del Vangelo di Giovanni che dice: “Io sono venuto per dare la vita e darla in abbondanza”. Liberare le persone dalla visione di un Dio che castiga, che ti controlla sempre, che difficilmente perdona. Anche tra i giovani è molto forte questa visione tradizionale. Per questo hanno lotte interiori profonde che a volte sconquassano la loro vita».

Quali sono secondo te le grandi sfide della missione del futuro?
«I missionari generalmente cercano di lavorare e migliorare le condizioni di vita della gente a livello “micro”, però in realtà molti problemi dipendono dal “macro”. Faccio un esempio: io missionario lavoro 20 anni con una comunità indigena in Amazzonia, poi il governo centrale decide di fare una diga che cancella in un momento quel popolo e, in un certo senso, tutto il lavoro fatto. C’è bisogno di lavorare al livello “macro”, sugli enormi interessi politici, economici, finanziari che muovono il mondo. Per farlo però dobbiamo lasciarci aiutare da persone preparate, dai laici. A volte noi siamo piccoli infermieri che lavorano sui sintomi, ma ci vuole un’azione più a monte, sulla malattia.
A un livello più strettamente missionario, altra sfida grande è quella del dialogo religioso. Superare la visione per la quale io ho la verità in tasca e gli altri più o meno. È la sfida di un’alleanza religiosa per migliorare la vita della gente in tutto il mondo».

Cosa possono offrire i missionari della Consolata al mondo?
«Una nostra caratteristica è la vicinanza alla gente. Qui in Messico mi sono sentito dire più di una volta: “Voi siete diversi”. Visitiamo le persone, le famiglie, cerchiamo una relazione. Non ci facciamo prendere dallo status: i sacerdoti da una parte, i fedeli e la gente dall’altra. Le persone vedono a apprezzano che siamo semplici, che non facciamo differenze, che parliamo anche con i più umili.
Altra nostra caratteristica è lo spirito di famiglia, per cui tra noi non ci sono relazioni basate sui ruoli: io sono l’amministratore, io il superiore, e così via. Questo spirito che viviamo tra noi si comunica anche alle persone con cui abbiamo a che fare. In Messico le gerarchie sono molto importanti: quando la gente vede che vestiamo normalmente, che parliamo con semplicità, e così via, rimane colpita positivamente».

Cosa possono fare, secondo te, i missionari della Consolata per avere impatto sui giovani?
«Innanzitutto dovrebbero scegliere le persone giuste: io ad esempio non mi sento in grado di entrare in sintonia con i giovani. Ci sono altri padri, invece, che sono bravissimi animatori.
Il mondo giovanile è una bella sfida, anche perché sta cambiando moltissimo. I giovani oggi sono molto preparati a livello intellettuale, però sono molto fragili da un punto di vista psicologico. Molti vivono un vuoto. Fa impressione il numero di quelli che ci dicono: “Padre, voglio suicidarmi”. Per questo penso che sia fondamentale essere una presenza, ascoltare, dire: “Ci sono per te”».

Ci suggerisci uno slogan da proporre ai giovani che si avvicinano ai nostri centri missionari?
«Mi ricordo che, quando da giovane chiamavo la casa di Bevera al telefono e dicevo: “Pronto, Missionari della Consolata?”, padre Stefano Camerlengo, ogni volta, rispondeva: “Sempre!”.
Un’altra frase che diceva spesso era: “Missionari è il massimo”. E io sono convinto di questo: con tutte le difficoltà e incongruenze che possono esserci, per me la vita missionaria è il massimo».

Luca Lorusso

Messico nell’archivio MC: Il paese dell’ingiustizia, Dossier MC, maggio-giugno 2010.

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