«Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”» (Mt 25, 34-36).
IL RE MENDICANTE
Il re ha fame e ha sete. Il re è straniero, è nudo, malato, carcerato. Il re ha bisogno. Di nutrirsi, di dissetarsi, di essere accolto (non integrato, ma accolto), di sentirsi protetto dalle intemperie, di qualcuno che curi le sue ferite, di incrociare degli occhi amici mentre sta nel chiuso della sua prigione.
Il re è Gesù. Dice a ciascuno di noi che tanti sono come lui: nel bisogno.
Chiede a ciascuno di condividere le proprie cose, la propria vita con gli altri. Gesù ci dice che gli altri sono Lui, che se aiutiamo, se condividiamo con gli altri, condividiamo con Lui: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».
Il re è Gesù, e Gesù ci dice che anche ciascuno di noi è come Lui: nel bisogno.
E se Lui è affamato, ammalato, carcerato, e se Lui ci dice di essere come noi, è perché ci chiede innanzitutto di riconoscere che anche noi siamo affamati, carenti di vita, ingabbiati nei nostri pantani, assetati di qualcosa a cui aspiriamo, feriti nel cuore e nel corpo.
Gesù ci chiede semplicemente e prima di tutto di essere come Lui, dei re bisognosi: con la dignità di un re, con la fame di vita dell’ultimo mendicante. E di riconoscere negli altri, chiunque essi siano, dei re mendicanti, come noi, come Lui.
Ciascuno di noi quindi è un re mendicante, la nostra famiglia è un re mendicante, la nostra coppia lo è, così come lo è ogni persona che incontriamo, o che vive lontano in un paese in guerra, su una terra violentata dalla monocoltura delle banane del nostro fruttivendolo, ai bordi di un fiume prosciugato da una diga, in un villaggio decimato dall’Aids.
Quando sappiamo chi siamo, sappiamo anche che la condivisione, la solidarietà, la prossimità sono parte della nostra identità. Quando sappiamo la verità su noi stessi, conosciamo anche chi sono gli altri, e facciamo come ha fatto Gesù: accogliamo, visitiamo, copriamo, sfamiamo, curiamo.
IL «DOVERE» DI CONDIVIDERE
Si sente dire spesso che i cristiani hanno il dovere di condividere. È un’affermazione quasi condivisibile. «Quasi» perché la condivisione non è un dovere – magari da compiere per guadagnare il premio (la vita eterna) o, peggio, per evitare la punizione (la morte eterna) -. La condivisione è un’opportunità.
Il paradiso «preparato fin dalla creazione del mondo» non è il club esclusivo sulla soglia del quale il buttafuori Pietro impedisce l’entrata a chiunque non corrisponda al dovere della carità. Non condividiamo per guadagnarci il paradiso, ma perché è nella nostra natura farlo. Condividere significa essere maggiormente noi stessi, corrispondere in modo più pieno alla nostra identità. Ed essere pienamente noi stessi è il paradiso preparato fin dalla fondazione del mondo. Per noi. Per ciascuno. La condivisione è l’opportunità per essere più felici. Una pienezza di gioia che è una prefigurazione, uno spot, un trailer, della pienezza che Dio ci ha già donato di vivere dopo la vita, quando la con-divisione imperfetta si trasfigurerà in com-unione perfetta.
Se alla condivisione togliamo il «con», rimane la sola «divisione»: cioè il piccolo grande inferno che viviamo quando siamo divisi dagli altri e – quindi – divisi da noi stessi. L’inferno non è la punizione per chi non rispetta l’obbligo della condivisione, è la meccanica conseguenza di una vita divisa e non condivisa. È la condizione da cui Gesù vuole tirare fuori ciascuno di noi. Anche a costo della sua vita.
LO SPECCHIO DELL’ALTRO
Nella lettera di Giacomo, l’apostolo parla delle opere, senza le quali la fede è morta come un corpo senza lo spirito. È abbastanza brutale Giacomo nel sostenere che siamo degli insensati se crediamo che la fede senza le opere vale qualcosa. L’apostolo «fratello» di Gesù è un forte sostenitore dell’impegno, della condivisione, della «giustizia sociale», e nel capitolo secondo della sua lettera non va per il sottile: «Non mescolate favoritismi personali alla vostra fede», non siate «giudici dai giudizi perversi» quando adulate il ricco e disprezzate, o fate i paternalisti con i poveri.
Poche righe sopra, nel primo capitolo, Giacomo parla della salvezza personale e della Parola di Dio, e per spiegare come le due realtà della nostra vita salvata e della Parola siano in relazione tra loro, usa la stessa immagine usata da Paolo al termine del suo inno alla carità (1Cor, 13), quella dello specchio: «Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; perché, se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica come era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla» (Gc 1, 21-25).
La fede senza opere è morta. Ascoltare la Parola (che invita alla vita, e quindi anche alla condivisione della vita) senza metterla in pratica è come guardarci allo specchio di sfuggita dimenticandoci subito della nostra identità intravista, dimenticandoci di noi stessi.
Giacomo ci suggerisce che il nostro specchio è doppio: la Parola di Dio e le persone con le quali metterla in pratica. La Parola ci svela a noi stessi. La condivisione ci aiuta a non dimenticare quello che la Parola ci ha svelato.
L’altro ci dice chi siamo, a volte violentemente, dandoci una mano a liberarci dagli illusionismi di cui ci serviamo, e di cui allo stesso tempo siamo schiavi.
L’alternativa posta da Giacomo è tra la salvezza-libertà-felicità data dal realizzare la Parola (attraverso la condivisione, il legame con l’altro), e l’illusione, la menzogna su noi stessi.
L’altro con cui siamo solidali, con cui condividiamo è uno specchio che ci dice chi siamo, ci libera, ci restituisce la verità su di noi.
METTERE IN PRATICA
Trovata la verità di noi stessi nell’incontro con Dio e con l’altro, liberati dall’oppressione del dovere per il quale la condivisione non può che nascere nella logica del premio-punizione, cioè fuori di noi, e non – come invece Dio desidera – dentro di noi, nella nostra aspirazione alla pienezza, allora accoglieremo i poveri, faremo volontariato, apriremo la nostra casa e la nostra quotidianità a chiunque voglia venire a trovarci, andremo noi stessi a trovare chi desidera accoglierci, che sia in un convento, in un carcere, in uno slum di Kinshasa. Cambieremo la nostra vita nella direzione della condivisione, della giustizia e della sobrietà.
È allora che gli strumenti – i Gruppi di Acquisto Solidale, il consumo responsabile, la partecipazione a gruppi di servizio, le serate di sensibilizzazione, il commercio equo e solidale, la finanza etica, il turismo responsabile, la cooperazione internazionale – saranno utili e noi riusciremo a vincere la tentazione sempre forte di trasformare i mezzi in fini.
Sarà allora che la condivisione sarà un incontro alla pari nella verità, e non un assistenza inflitta a chi noi crediamo essere più schiavo, più povero, più incarcerato, più assetato.
di Luca Lorusso
da «Gruppi famiglia», pagg. 12-13
Luca Lorusso
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