Slow page dei Missionari della consolata

Ho visto le mie sorelle minori non mangiare per 48 ore

«Io so cosa vuol dire avere in casa uno che beve. Mio padre ai tempi del comunismo era responsabile di una brigata di costruttori. Quando il sistema è crollato chi aveva un posto come lui ha trovato il modo di accaparrarsi qualcosa, lui – che era molto onesto – no. Così in breve tempo si è trovato con l’acqua alla gola. È andato giù di morale e ha cominciato a bere».

Il silenzio è palpabile; non c’è artificio nel discorso di Amgaa. «Lui diceva sempre che nella vita di un uomo prima o poi arriva il giorno in cui ti si apre la mente e capisci; per me quel giorno dev’essere arrivato quando avevo 17 anni. Ho visto le mie 3 sorelle minori non mangiare nulla per 48 ore e mi son detto: Non farò mai passare questo ai miei figli». Qualcuno ha gli occhi lucidi; nessuno lo interrompe. «Mio padre poi si è ripreso; io sono andato all’università e sono diventato medico. Adesso che ho un bambino di tre anni mi accorgo che lui ripete tutto quello che faccio e dico. Bisogna che diamo un buon esempio ai nostri figli. I vostri figli e nipoti adesso saranno contenti di vedervi così». Sembra un passaggio di testimone. Enkhamgalan (Amgaa per gli amici) è un giovane medico dell’ospedale di Arvaiheer. Ci siamo conosciuti quando insegnavo inglese alla biblioteca comunale. Da allora siamo rimasti in contatto e nel tempo è nata una bella amicizia. Quando ne abbiamo bisogno, viene a trovarci per consulti medici. Così è stato anche pochi giorni fa. Intanto, fuori, il neonato gruppo di uomini stava lavorando a rimuovere lo spesso strato di neve accumulata sotto le finestre. Finita la visita, Amgaa si è fermato nell’ufficetto parrocchiale e abbiamo scambiato due parole. Gli ho raccontato del gruppo itgel zutgel (“Fede e impegno”) e ne è rimasto colpito. Il lavoro fuori era ormai finito e gli uomini sono entrati per salutare; allora mi viene in mente di trattenerli ancora un poco per fare conoscenza con Amgaa. In pochi minuti il piccolo ufficio si riempie: Boldoo, Renchin, Ganaa, Henchmedhev, Jigmedsuren e Chuka siedono intorno alla scrivania, mentre introduco brevemente l’amico Amgaa. È la prima volta che ci troviamo solo tra uomini, l’atmosfera è interessante… Dopo la mia breve presentazione di Amgaa (troppo povera di elogi), lui stesso prende la parola e subito cambia la musica: inizia una vera conversazione tra mongoli, fatta di frasi brevi, quasi sbiascicate, spesso interrotte da suoni rauchi e spezzati, come di chi aspira velocemente una consonante, bloccandola in gola. È il loro modo di annuire.

Ho tanta stima di questa gente straniera che è qui con voi …

Amgaa racconta la nostra amicizia dal suo punto di vista e mi colpisce quello che dice: “Ho tanta stima di questa gente straniera che è qui con voi; pur non essendo mongoli, per il vostro cambiamento in meglio stanno facendo più loro che i nostri politici…”. Poi continua: “Io non sono della stessa religione, ma non posso che restare ammirato di quello che vedo: si prendono cura di voi, dei vostri bambini e giovani; adesso vi hanno proposto questo radunarsi tra uomini: io ricordo le facce di alcuni di voi, quando avete avuto bisogno del medico perché vi avevano trovati ubriachi per strada” – e qui alza il capo per la prima volta, dopo esser rimasto chino sulle braccia appoggiate pesanti su un angolo della scrivania. Lo sguardo non è di critica, ma di compassione. Nell’aria si sente che c’è intesa tra loro: “Quando ho varcato lo spazio di questa staccionata ho visto che vi davate da fare con la neve e ho riconosciuto le vostre facce. Siete diversi, ve ne rendete conto?”. La frase, spezzettata varie volte, finisce in crescendo e in risposta si elevano altri “tkhhhh” e brevi cenni di assenso. “Se volete, potremmo pensare di vederci qualche volta, per parlare di salute”. Questa infatti era la mia proposta: invitare Amgaa e altri medici a parlare di temi legati alla salute, per offrire momenti formativi. L’idea piace, ma piace ancora di più il fatto di trovarsi insieme come uomini dignitosi, seduti compostamente al termine di una giornata di lavoro. Cosa che quasi nessuno ricordava di aver vissuto di recente. Squilla il telefono di Boldoo e quando lui risponde “Aspetta, sono in riunione”, un altro gli fa il verso. Non sono abituati a sentirsi considerati.

Oggi è stato molto bello; abbiamo lavorato tutto il giorno…

È Renchin, il più anziano, a prendere la parola: “Oggi è stato molto bello; abbiamo lavorato tutto il giorno, non c’è stato il tempo neanche di pensare a bere. Io per anni ho lavorato al teatro di Arvaiheer come cantante stabile. Poi ho cominciato a bere e mi hanno buttato fuori. Dopo un po’ un conoscente mi ha dato un’altra possibilità: andare a Ulaanbaatar, per entrare nel gruppo folkloristico di stato. Mi hanno preso subito. Quello che guadagnavo lo finivo subito con gli amici bevendo. Mi hanno cacciato anche di là”. Chuka, il nostro guardiano, sembra il più entusiasta: “Anch’io sotto il comunismo ero un capo, in una piccola unità produttiva della campagna qui vicino. Lo scaffale era sempre pieno di vodka. Anche ultimamente, da quando lavoro qui per la Chiesa, bevevo. Poi, 10 mesi fa, mia madre mi ha detto: Finchè tua madre è in vita, non darle questo dispiacere, smetti di bere. E io ho smesso”. Davvero il suo è un caso eclatante; noi ne siamo testimoni. “Ho scoperto che si può anche fare a meno di bere e stai meglio, la gente ti rispetta, riesci a lavorare. Prima mio figlio, che studia a Ulaanbaatar, al telefono chiamava solo mia moglie, chiedendole se papà era ubriaco; adesso telefona direttamente a me! Capite? Mio figlio adesso telefona direttamente a me…”. Piccoli segni di vera risurrezione.

“Anch’io ho lavorato a lungo per il teatro di stato, come attore. Sono un buon pittore e ho decorato la stupa che si trova su quella collina”, dice Ganaa. “Però, qui siete proprio tutti artisti!”, esclama Amgaa. “Ebbene, quello che ricordo è il trovarmi rannicchiato vicino alla porta, perché non riuscivo a mettere le chiavi nella toppa. Sempre sbronzo. Adesso non bevo più, da quando vengo qui le cose sono cambiate. Come gruppo vorremmo metterci a fare qualche lavoretto, poi si vedrà”.

Gli altri non parlano, ma è come se l’avessero fatto. Mi viene spontaneo intervenire: “Dovete ringraziare molto le vostre mogli, se adesso siete così; è la loro pazienza e la loro fede che vi hanno tenuti in vita”. Sorridono approvando. Sono state le donne ad avvicinarsi per prime alla Chiesa e poco alla volta li hanno cambiati.

Provo una sensazione molto bella, quella di essere spettatore di un miracolo più grande di noi e dei nostri sforzi; c’è Qualcuno che ha tessuto la trama di queste vite e ora le porta verso di Sé. Nessuno avrebbe detto che questi uomini si sarebbero trovati qui un giorno a raccontarsi la loro vita. Neanche noi missionarie e missionarie. È vero, abbiamo messo in opera certe iniziative, è necessario e giusto farlo; ma quello a cui stiamo assistendo và ben al di là dei nostri sforzi. Forse quello che conta allora non è tanto il nostro sbatterci, correndo di qua e di là, ma l’accorgerci di questo passaggio dello Spirito. Esserci, con fede e pazienza. Questo è ciò che ci è richiesto. Al Signore è sufficiente per compiere la Sua opera.

p. Giorgio Marengo, da Arvaiheer – Mongolia

di Giorgio Marengo – da consolatacam.it

The following two tabs change content below.

Giorgio Marengo

Ultimi post di Giorgio Marengo (vedi tutti)

Be the first to comment

Leave a Reply

L'indirizzo email non sarà pubblicato.