Slow page dei Missionari della consolata

Ti parlo… dunque siamo

Incontro e differenza, oltre stereotipi e pregiudizi verso un altro modo di comunicare e gestire le nostre relazioni.
L’importanza di essere chiamato per nome e di essere riconosciuto come un soggetto avente il diritto di esistere.

Maria è una ragazzina sudanese di 13 anni, scappata con la famiglia dal suo paese e rifugiatasi al Cairo in attesa di conoscere la sua nuova destinazione: Stati Uniti, Canada o Australia. Vive nei pressi della parrocchia di Sakakini, che è un pezzo di Africa nera in un mondo arabo che la rifiuta: la differenza di pelle, di religione, di lingua e di costumi, il mancato riconoscimento di diritti minimi di istruzione e di sopravvivenza fanno di lei, come di tanti altri nella sua stessa situazione, una persona in transito. Maria è un soggetto trasparente in quanto non riconosciuto dalla società in cui, per caso e per un periodo di tempo non precisato, si trova a vivere.
I suoi riferimenti continuano ad essere quelli della sua gente che ogni giorno si raduna nel cortile della parrocchia davanti a due cartelloni bianchi in cui qualcuno, forse un missionario, forse Dio in persona, scrive con un pennarello rosso alcune lettere che hanno un senso, un senso enorme, solo per l’ordine in cui sono poste: sono i nomi e i cognomi dei fortunati che da lì a poco partiranno per una nuova vita, che si accompagna al riconoscimento dello status di rifugiato e quindi alla riappropriazione della propria identità.
Paulina è una ragazza dell’Ecuador che solo dopo sei anni di lotte e di carte, ha finalmente ottenuto il permesso di soggiorno in Spagna e quindi la possibilità di tornare al suo paese senza l’angoscia di non poter più rientrare in Europa: «Sono sei anni che non vedo la mia famiglia: il datore di lavoro da cui ero impiegata mi ha sempre impedito di accedere ad alcune carte di scambio con il Ministero. La mia domanda di documenti e di regolarizzazione è stata regolarmente rifiutata, e quando chiedevo spiegazioni, il mio capo rispondeva che non erano affari miei».

Oltre lo stereotipo: la dimensione umana dell’incontro
Questi piccoli episodi raccontano l’importanza, cara ad ogni essere umano, di essere chiamato per nome e di essere riconosciuto socialmente come un soggetto avente il diritto di esistere. Poter stringere una mano così come un documento, aiutano a configurarsi dentro spazi accettati che predispongono all’incontro perché abbassano le difese, le paure reciproche e i preconcetti.
Quando incontriamo una persona, di qualsiasi provenienza essa sia, la leggiamo attraverso stereotipi che orientano la nostra percezione e che ci aiutano a metterla all’interno di categorie: sesso, età, colore della pelle, provenienza, status economico.
Proviamo a chiederci: «Chi è l’“altro”? Quali reazioni suscita in noi?».
L’«altro» in quanto immagine generica alimentata dalla paura del diverso, inizia a cambiare e lasciare il posto alla persona in carne ed ossa solo nel momento in cui le attribuiamo un nome e una storia. È nell’incontro e nello scambio che la ragazza dell’Ecuador diventa Paulina, con i suoi vissuti, le sue lotte e le sue risorse; è l’incontro che aiuta ad andare oltre gli stereotipi e a non degenerare nei pregiudizi.
I termini stereotipo e pregiudizio sono spesso abbinati e caricati di un forte valore negativo, poiché il loro uso più comune riguarda l’ostilità verso minoranze o gruppi etnici.
In realtà il concetto di stereotipo nasce direttamente nelle scienze sociali dato che il termine fu coniato nel Settecento per indicare, nel lavoro tipografico, la riproduzione a stampa per mezzo di forme fisse (dal greco stereòs, rigido e tùpos, impronta).
Lo stereotipo è un processo cognitivo che orienta la ricerca e la valutazione dei dati di esperienza: uno stereotipo, per essere realmente tale, deve essere condiviso da un gruppo sociale nei confronti di un altro gruppo, ai cui membri vengono attribuite, indistintamente, alcune caratteristiche in modo difficilmente modificabile.
Lo stereotipo può essere concepito come il nucleo cognitivo del pregiudizio in quanto è un insieme di informazioni e credenze che, formando un’immagine stabile di una categoria di oggetti, sostiene e riproduce il pregiudizio nei loro confronti.
Da un punto di vista etimologico, pregiudizio indica un giudizio precedente all’esperienza, e spesso un giudizio errato.
Il pregiudizio non si riferisce tanto ad eventi, quanto a gruppi sociali; il pregiudizio è di solito sfavorevole e tende a penalizzare il suo oggetto. Esso non si limita alla valutazione dell’oggetto ma orienta anche l’azione concreta nei suoi confronti.
Quando l’aggressività che nasce da una frustrazione non può essere scaricata in modo diretto, viene indirizzata sotto forma di pregiudizio verso un obiettivo disponibile, solitamente debole.

Il pregiudizio etnico-razziale
Il vocabolario, con le etimologie e le multiple definizioni di un concetto, è uno strumento preziosissimo nell’analisi di un argomento. Il Devoto-Oli, ad esempio, definisce la parola «razza» nel modo seguente:
1. Serie omogenea di individui contraddistinti da comuni caratteri esteriori ed ereditari. / In riferimento al grado di purezza.
2. La famiglia o la stirpe considerata nei suoi caratteri peculiari e inconfondibili.
3. «Specie», per lo più nella sua accezione spregiativa.
In seguito alle tristi vicende storiche che si sono consumate in nome della «razza», tale termine è diventato una sorta di tabù, mentre la parola «razzismo» non solo è comunemente utilizzata, ma viene anche applicata a numerose e disparate situazioni. In tal modo può assumere una funzione vaga, come sinonimo di esclusione, rigetto, ostilità, paura o disprezzo. Queste sono le tante sfumature del razzismo.
Alla connotazione biologica insita nel termine «razza», si aggiunse la caratterizzazione di tipo culturale, che di fatto divenne la maggiore discriminante dell’appartenenza. Dalla nozione di «razza» si è dunque passati a quella di «etnia», intendendo con ciò un grande gruppo umano la cui peculiarità si esprime principalmente in termini di comuni costumi, linguaggio, religione, pratiche materiali, valori, modi di vedere la realtà. Ed è per questo che gran parte del dibattito attuale sul razzismo verte non sulla razza biologica ma sull’appartenenza culturale.
L’espressione di pregiudizio più diffusa nei confronti delle minoranze rimane la distorsione nella percezione e nella valutazione. Gli appartenenti ad una minoranza vengono percepiti e valutati in maniera distorta sia come categoria sociale, sia come singoli individui; nella convivenza con essi vengono ampliate e sovrastimate.
Si è creduto che il grande mescolamento di etnie dovuto a migrazioni, deportazioni, conquiste coloniali, ecc. avrebbe col tempo cancellato le identità etniche e le singole culture, all’interno di un processo di assimilazione irreversibile.
Il desiderio di assimilazione è tipico degli emigrati quando, giunti in una una nuova terra, preferiscono «passare inosservati» piuttosto che ostentare la propria differenza. Spesso c’è in loro la tentazione iniziale di imitare i loro ospiti, quasi che la cultura di accoglienza sia una pagina già scritta a cui non aggiungere nemmeno una virgola.
All’estremo opposto c’è l’atteggiamento di chi vede la cultura di accoglienza come un qualcosa che non gli appartiene, dal quale differenziarsi attraverso la chiusura nella propria comunità originaria di appartenenza.
Amin Maalouf, raccontando la sua esperienza di libanese emigrato in Francia nel 1976, risponde così a chi gli domanda se si sente più francese o più libanese: «L’uno e l’altro!. (…) Ciò che mi rende come sono e non diverso è la mia esistenza tra due paesi, fra due o tre lingue, fra parecchie tradizioni culturali. È proprio questo che definisce la mia identità. Sarei più autentico se mi privassi di una parte di me stesso?».
L’autore mette in risalto la complessità dell’identità costituita da appartenenze plurime (ad una religione, ad una nazione, ad un gruppo etnico e linguistico, ecc.) che si sommano nello stesso individuo dando luogo ad una combinazione unica e di volta in volta mutevole.
Per Maalouf la parola chiave per sbloccare le estremizzazioni è «reciprocità»: se l’emigrato fa proprio il paese di adozione e lo rende parte di sé, della propria identità, allora ha il diritto di criticarne i lati negativi; parallelamente se il paese accetta l’immigrato come parte integrante, ha il diritto di rifiutare o contenere certi aspetti della sua cultura. «Il diritto di criticare l’altro si guadagna, si merita», dice Maalouf.

I tratti comuni dell’esperienza migratoria
Gli immigrati sono spesso pensati come «gente che arriva» e non come «gente che parte», forse perché le migrazioni non fanno più parte della nostra esperienza quotidiana. In Italia, la memoria storica di parenti partiti per cercare fortuna è rimasta solo tra gli anziani. Nella percezione comune, le migrazioni dei nostri connazionali sono visti come qualcosa di diverso dall’arrivo degli immigrati in Italia.
In realtà, l’esperienza migratoria implica un progetto, una partenza, un arrivo e un adattamento, fasi che accomunano gli uomini fin dagli albori del mondo e contemporaneamente li differenziano per la qualità emotiva di tali esperienze.
Non tutte le partenze sono uguali: alcuni partono verso un obiettivo specifico, alla ricerca di qualche cosa, altri partono per fuggire una situazione di guerra o di ingiustizia sociale, per fuggire la tortura o la morte. Le partenze dei rifugiati sono prive di festeggiamenti, spesso fatte all’improvviso senza il tempo di programmare o di immaginare quello che sarà il poi.
Spesso l’arrivo nel paese di destinazione obbliga il migrante ad affrontare i bisogni primari quali mangiare, dormire, alloggiare e molte volte chi arriva versa in condizione di deprivazione materiale ed affettiva: è senza legami, non riconosce e non è riconosciuto.
Tra i bisogni primari non ci sono solo quelli materiali, ma anche quelli legati al mantenimento dell’integrità psicologica, quali il bisogno di contatto e di riconoscimento. L’impatto con un’altra cultura comporta la messa in discussione dei valori tradizionali, la perdita del prestigio sociale, un cambio spesso non mediato nella comunicazione non verbale. Le aspettative che un migrante aveva partendo sono disattese all’arrivo ed una delle soluzioni per tamponare tale situazione di emergenza, è quella di ricorrere ad amici, parenti oppure alla comunità di appartenenza.
Il progetto migratorio si basa sul desiderio di costruire un futuro per sé e per le persone della propria famiglia.
Se il progetto è esclusivamente economico, il migrante, dopo un periodo di notevole disagio durante i primi sei mesi di permanenza in Italia, sembra adattarsi nei mesi successivi per poi peggiorare quanto più forte è la nostalgia.
Chi giunge con motivazioni politiche invece, ha livelli di benessere iniziale che derivano dallo scampato pericolo nel paese di origine, che peggiorano sensibilmente quando l’impatto col reale impone il confronto con il quotidiano. Chi scappa per motivi economici, molte volte lo fa in tutta fretta e non ha il tempo e il modo di elaborare un proprio progetto migratorio che lo motivi e lo sostenga durante la permanenza all’estero.
La condizione di clandestinità, infine, ha grandi ripercussioni sull’individuo in molti aspetti della sua vita. Sul piano psico-sociale, comporta un accesso ostacolato all’assistenza sanitaria, una mancanza di tutela che rende l’individuo facilmente ricattabile, l’impossibilità di realizzare i ricongiungimenti familiari. La clandestinità pone il soggetto in una condizione di «invisibilità » in cui persino la recriminazione dei propri diritti fondamentali diventa problematica e spesso taciuta.

I minori migranti
Crescere in Italia come figlio di immigrati significa dover affrontare la difficoltà doppia di vivere l’emarginazione economica e sociale dei genitori, accompagnata al destino «subito» come scelta degli adulti. Nelle migrazioni di prima generazione, il minore mantiene per lo più una solida identificazione con la cultura d’origine. Sono bambini nati altrove, che hanno nostalgie e che hanno conosciuto lo stress da acculturazione. Non hanno scelto di migrare ma hanno subito tale scelta, quindi non hanno potuto far crescere in loro le motivazioni che sostengono gli adulti. Molte volte vivono in casa allo stesso modo in cui vivevano nella terra d’origine, ma al di fuori di questo ambiente ce n’è un altro che pone richieste impegnative e in contraddizione con il patrimonio tradizionale. Comunque la prima generazione è relativamente ancorata alla propria identità di origine: nella maggior parte dei casi, il minore è invitato a rimanere parte della cultura dei genitori da tutta una serie di messaggi ricevuti per lo più a livello inconsapevole.
È la seconda generazione di immigrati a maggior rischio di sofferenza psicologica e sociale. Le patologie che si sviluppano in tale fascia, in particolare in adolescenza, sono principalmente sindromi depressive e ansiose, disturbi psicosomatici e, dal punto di vista del comportamento, personalità o atteggiamenti anti-sociali (formazione di gang di teppisti).
Il bambino nato in Italia sente l’Italia come proprio paese perché semplicemente non ne conosce altri. Non ha uno spazio geografico in cui collocare le proprie radici se non uno spazio magico, quello del paese lontano, la cui idea è rafforzata dalla protezione della madre la quale, però, a volte manda dei messaggi nascosti: «purché tu rimanga marocchino» e non diventi «italiano».
Spesso i primi disagi nascono con l’impatto scolastico, anche se la maggior parte delle problematiche si acutizzano in età adolescenziale. Il disadattamento è maggiore specialmente nei ragazzi il cui padre non è in grado di gestire bene la relazione con la società ospitante e di costruire un modello di gestione dei rapporti.
In questi casi è indispensabile prevenire il malessere di questi giovani e la loro sofferenza attraverso degli interventi che vanno ad analizzare tutti e due i tipi di messaggi nascosti a cui il ragazzo è sottoposto: «rimani dei nostri», appreso in famiglia e «non va bene essere straniero», colto nella società.
Spunto di riflessione: cosa fare? Secondo Mazzetti, per prevenire il malessere dei giovani cresciuti tra due culture, bisogna aiutarli a darsi il duplice permesso di essere se stessi e quindi di appropriarsi/riappropriarsi in modo sano e creativo della propria cultura, e quello di integrarsi e far parte della società in cui si trovano a vivere. È importante aiutare i giovani a scoprire le ricchezze delle due culture a cui appartengono e far chiarezza nelle proprie percezioni: da un lato la famiglia ha creato pregiudizi sulla società ospitante, dall’altro la società ha pregiudizi sugli immigrati.

La comunicazione come atto sociale.
La comunicazione è sempre un atto sociale, sia che avvenga tra due individui sia che avvenga nel colloquio interiore di un individuo con se stesso.
Ciò è dovuto al fatto che, come dice Peirce, ogni segno è leggibile solo all’interno di un’esperienza comune o su un sistema basato su consuetudini culturali comuni.
Un tipo di comunicazione fondamentale è quella utilizzata dai mass media che spesso non sono sufficientemente consapevoli del proprio ruolo nella formazione dell’opinione pubblica anche in materia di migrazioni: dire «clandestini» al posto di migranti o «fondamentalisti» al posto di musulmani incide sull’immaginario collettivo e sugli atteggiamenti degli individui.
Utilizzare il termine «clandestini» al posto di «migranti» ha una valenza sociale profondamente diversa.
Non è solo il linguaggio ad avere una particolare importanza, ma anche il taglio dato alla notizia e il rilievo dato a particolari suoi aspetti: ad esempio, il Tg regionale del Piemonte delle ore 14 del 3 febbraio 1990, dà la notizia dell’arresto di dieci spacciatori, «tre di essi sono marocchini». Ciò significa che gli altri sette non lo erano. Perché dunque mettere in risalto questo particolare e in modo così generico?
Accanto a questo tipo di comunicazione, ce n’è una altrettanto pericolosa utilizzata dal giornalismo-spettacolo specialmente televisivo, identificabile nella «tv del dolore» che si mette dalla parte delle vittime contro i «cattivi» capaci di qualsiasi genere di nefandezze. Il modello di trattazione in questi casi è quello della ricostruzione dei fatti e della discussione dei pro e dei contro, ispirato ad un atteggiamento di assunzione in proprio del giornalista della tutela dei soggetti deboli, non sempre richiesta.
L’evoluzione della società dello spettacolo ha offerto alla comunicazione mediatica dei simboli post-razzisti in particolari ambiti quali la musica, la moda e lo sport. Da Louis Amstrong a Ray Charles, da Ronaldo a Naomi Campbell, la forza della musica, il mito della vittoria sportiva e il fascino della bellezza hanno da tempo imposto l’idea di una società post-razziale e affermato il primato della differenza.
In questi universi non contano le differenze di razza ma solo quelle prodotte dai successi, dalle vittorie, dalle classifiche.
Nel corso degli anni si sono consolidate diverse tipologie di comunicazione mediatica, specialmente televisiva, caratterizzata ognuna da un diverso rapporto con la realtà. Marletti evidenzia come la tv dell’emergenza razziale tenda ad enfatizzare il fatto che l’Italia sia un paese «razzista» o potenzialmente tale; vuole denunciare, mobilitare ma è poco incline a scavare. Tende a dividere in razzisti e non. La tv dell’integrazione razziale, invece, è quella che esibisce un modello positivo di società multietnica che dà per risolto il problema razziale in termine di società integrata, spesso lontana dalla realtà e più centrata sulla black happy family americana (I Robinson, Arnold, Willy, ecc.) lontana dal contesto italiano e che stigmatizza i caratteri dentro la stereotipia felice dei ruoli da fiction. La tv post-razziale, infine, si basa su criteri culturali pensati per una società senza barriere, in cui la diversità è un valore propulsivo per un modello societario fondato sul consumo, sulla novità, sulla bellezza e sull’affermazione.

BOX
La salute di chi migra: tutela o pregiudizio?

Nel 1850 venne fatto il primo lavoro sulla salute mentale degli immigrati – «On the insane foreigners» (Sugli stranieri pazzi) – pubblicato da Ranney, uno psichiatra nord-americano che propose la teoria dell’Alliéné migrateur, secondo la quale a migrare erano soprattutto i disadattati incapaci di integrarsi nel proprio tessuto sociale. Tale teoria consolidò tenaci pregiudizi.
Una teoria contrapposta sostiene invece che le difficoltà incontrate nel processo migratorio determinano una selezione positiva degli elementi più forti e più capaci di reggere lo stress da transculturazione, definito da Mazzetti come quella «situazione di pressione psicologica cui è sottoposto l’individuo che scioglie i legami con la sua terra, la famiglia e la cultura e si vede costretto ad imparare una nuova lingua, accettare valori e abitudini nuove o differenti, o quantomeno a venirne a patti».
A questo stress vanno aggiunti altri fattori, tra i quali la fragilità economica, le cattive condizioni abitative, l’emarginazione sociale, ecc. Secondo la teoria dello stress da acculturazione, i migranti partono sani. Partono specialmente i più forti e motivati.

Tratto da AMICO marzo-aprile 2007

Paola Cereda

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