Slow page dei Missionari della consolata

Rom, romeni e romani

Riflessioni dalla veglia in ricordo di Sebastian, Patrizia, Fernando e Raul: i quattro bambini morti a Roma nel rogo della loro baracca.

Strano trovarli in chiesa, e così in massa. Normalmente quelli di loro che girano in questi ambienti attendono fuori dalla cancellata o, dove trovano parroci più benigni, alla soglia del tempio; lì allestiscono le loro strategie mendicanti e danno inizio alla giornata. Diciamolo, troveremmo strano (forse non ce lo siamo mai neppure chiesto) che anche loro possano entrare a far parte di un culto, cattolico od ortodosso che sia. Ieri sera però decine e decine di rom e sinti si sono dati appuntamento dentro la chiesa, fra le navate della bellissima basilica di Santa Maria in Trastevere, ospitati dalla Comunità di Sant’Egidio per una veglia di preghiera in ricordo di Sebastian, Patrizia, Fernando e Raul. Sono i quattro bambini morti nel rogo della loro baracca, in uno dei tanti insediamenti abusivi della capitale. Quella della comunità trasteverina è stata un’iniziativa tempestiva, che ha dato un respiro diverso alla polemica che investe Roma e la nostra penisola dopo quest’ultimo accadimento sconvolgente. La basilica era stracolma di gente: con la famiglia dei bimbi, tanti altri rom, sinti, alcuni religiosi, molti stranieri, ma soprattutto tantissimi italiani, venuti per solidarietà con una famiglia che soffre e con tutta una comunità che ancora una volta piange i suoi morti. Uno dei momenti più toccanti della celebrazione è stata infatti la preghiera dei fedeli dove, intervallati dal Kyrie eleison, sono stati nominati tutti i bambini rom e sinti morti in questi anni in Italia in maniera improvvisa e dolorosa, per cause spesso riconducibili alla violenza e alla povertà. È stato sicuramente un segno positivo vedere tutti questi gagè (così vengono chiamati coloro che non appartengono ai popoli zingari) presenti. È stato bello notare il mischiarsi di gente sulle panche della chiesa dove, per una volta, alcuni si sono seduti di fianco a uno zingaro senza la paura che questi gli fregasse il portafoglio.
Eh sì, perché è duro a morire lo stereotipo dell’accattone ladro-ruba bambini che da secoli accompagna i gitani nel nostro e in altri paesi. È uno stereotipo che rende difficili i tentativi di avvicinamento, di presa di contatto, indispensabili per poter iniziare (o in molti casi, per fortuna, continuare) i processi di conoscenza reciproca, alla base della possibilità di qualsiasi tipo di convivenza.
Ieri sera, comunque, nella funzione presieduta da Agostino Vallini, cardinale Vicario di Sua Santità per la diocesi di Roma, di rom in quanto tali si è parlato poco. Si è parlato invece di poveri, categoria evangelica per eccellenza, la cui sola evocazione dovrebbe scatenare in chiunque si definisca cristiano atteggiamenti di misericordia e tolleranza.
Il brano del Vangelo (Mt 19,13-15) ci riportava all’immagine del Cristo paziente e amorevole verso i bambini che a lui accorrono, mentre la prima lettura (Is 61, 1-3) era quel brano del profeta Isaia che Gesù sceglie quando, nella sinagoga di Nazareth, inizia ufficialmente la sua azione evangelizzatrice attraverso la proclamazione del Regno di Dio (il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi…). Servire il Regno significa servire i poveri e siccome questi sono la presenza reale di Cristo in mezzo a noi, servire e accogliere il povero e l’immigrato significa considerarlo uno di noi, provvedere a lui con la misericordia, ma anche con leggi giuste. Lo ha ricordato chiaramente il cardinal Vallini, sottolineando come la carità non possa essere disgiunta dalla giustizia se non vuole essere carità pelosa e se non si vuole cadere in uno sterile buonismo che poco apporta alla soluzione dei problemi e a una corretta gestione delle relazioni.
Imparare a vedere gli immigrati non come una fonte di problemi, ma come una possibile fonte di ricchezza è parte del cammino che ci attende, un cammino difficile come risulta da questo palleggiarsi di responsabilità fra governo e comune di Roma, un atteggiamento che non porta alcun frutto se non la conseguenza di esarcerbare ancora di più animi provati dalle sofferenze e dal conflitto sociale. Proprio perché la logica buonista manifesta tutti i suoi limiti, alcune domande che la gente si pone riguardo all’integrazione e all’adattabilità di rom e sinti nel nostro tessuto sociale non possono essere eluse, sempre che non vengano poste con l’arroganza di chi considera lo zingaro meno educabile di un cane. Ci vuole però conoscenza, e questa si genera soltanto attraverso occasioni di incontro che permettano la narrazione delle reciproche storie, la storia di chi viaggia e quella di chi è chiamato ad accogliere.
Di fronte ai flash dei fotografi, impietosamente sparati sui volti dei protagonisti di questa vicenda (e sull’onorevole Casini, presente alla celebrazione) mi chiedo, di fronte a tanto dispiegamento di mezzi di comunicazione, a cosa porteranno queste ennesime morti. Mentre ringraziavo tra me e me la Comunità di Sant’Egidio per il tempestivo intervento di sensibilizzazione, presa di coscienza (e, per chi è cristiano, richiamo ai valori forti del Vangelo), mi chiedevo che cosa ci avrebbe atteso dietro l’angolo. Parlo della quotidianità, quando il rom tornerà ad essere un sozzo disturbatore del nostro struscio fra le vetrine del centro o della pia preparazione alla messa domenicale; quando i flash si spegneranno e non andranno sicuramente ad illuminare i campi sparsi intorno alle nostre città, o a documentare i continui e ripetuti sgomberi a cui queste comunità, con i loro bambini, sono sottoposte. Insomma, qual è il dopo? È importante chiedercelo, perché il dopo di oggi sarà il prima di domani, ciò che impedirà il ripetersi di questi episodi tanto drammatici quanto evitabili.
Alla conclusione della preghiera, il cardinal Vallini ha ricordato che in quella circostanza le differenze date dalle diverse provenienze venivano appianate e lì, per una sera, eravamo tutti romani. Oggi, però, i rom sono tali, e così i romani. Quando potremo considerarci semplicemente fratelli per un tempo che vada più in là dello spazio di una serata?
 

Ugo Pozzoli

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